Un sistema di difesa aereaUn sistema di difesa aerea

L’ECONOMIA DI GUERRA: CONCETTO E SGUARDO RETROSPETTIVO NEL CONTESTO DEL CASO DI STUDIO DEGLI STATI UNITI

di Andrea Vento

 

Negli Stati Uniti, non il “New Deal”, bensì l’economia di guerra del secondo conflitto mondiale portò il Paese fuori dalla decennale Grande Depressione

Il concetto di economia di guerra

Gli esperti ricorrono a tale terminologia quando uno Stato riorganizza la struttura della propria economia nel corso di un conflitto per garantire che la capacità produttiva venga configurata in modo ottimale per sostenere lo sforzo bellico.

Con l’economia di guerra, i governi devono assicurare che le risorse siano allocate in modo efficiente per far fronte sia all’impegno militare, sia alla domanda proveniente dalla società civile. In sostanza, costituisce, da un lato, una necessità per garantire la difesa e la sicurezza del Paese e, dall’altro, una strategia finalizzata all’ottenimento di un vantaggio economico, tecnologico e produttivo sulla controparte.

In un contesto di economia di guerra i governi riservano priorità alle produzioni di sostegno all’attività militare e in base ai contesti storici e politici possono ricorre a specifici provvedimenti economici quali: l’emissione di appositi strumenti finanziari per reperire risorse aggiuntive, come le obbligazioni di guerra, ridistribuire le risorse fiscali a favore dello sforzo bellico e a detrimento di altre necessità non prioritarie in tempo di guerra, incentivare le imprese private ad ampliare e a spostare la produzione verso il comparto militare, non che, in caso di necessità, stabilire il razionamento dei prodotti alimentari per garantire l’approvvigionamento dell’intera popolazione, come avvenuto nel nostro Paese nel corso dell’ultima guerra mondiale.

L’economia di Guerra durante la Seconda Guerra Mondiale

Nel corso della storia, talvolta, si sono verificati casi di Paesi che a seguito dell’adozione di un’economia di guerra, non avendo riportato gravi distruzioni, al termine del conflitto hanno beneficiato di un ampliamento, un avanzamento tecnologico e un rafforzamento del loro struttura produttiva, come gli Stati Uniti al termine della Seconda Guerra Mondiale.

Sussistono anche situazioni di Stati che dopo aver subito la devastazione bellica dell’apparato produttivo, hanno sfruttato la ricostruzione per dotarsi di infrastrutture e impianti industriali più moderni e tecnologicamente efficienti, come accaduto in Giappone e in Germania dopo l’ultimo conflitto mondiale.

Mentre in Corea del Sud, i militari guidati dal generale Park Chung-hee, saliti al potere con un colpo di stato nel 1961, avviarono un processo di industrializzazione che, grazie al ruolo centrale dello Stato nell’economia, riuscì ad innescare in un Paese ancora sostanzialmente rurale e arretrato, oltre che devastato dall’occupazione militare Giapponese (1910-45) e dalla Guerra di Corea (1950-53), un significativo processo di sviluppo socio-culturale e una forte crescita economica, passata alla storia come “miracolo sul fiume Han”.  

Gli Stati coinvolti direttamente nella Seconda Guerra Mondiale fecero necessariamente ricorsero ad una economia di guerra durante il conflitto, mentre la Germania nazista aveva già adottato parzialmente tale modello a seguito della politica di riarmo implementata dopo la salita di Adolf Hitler alla Cancelleria nel 1933, spostando risorse dalla produzione di beni di lusso verso armamenti, mezzi ed equipaggiamenti militari, i cui frutti risultarono imponenti sin dal 1935.

Diverso il caso degli Stati Uniti, i quali inizialmente non coinvolti direttamente nel conflitto mondiale, a partire dal 1 settembre del 1939 hanno dapprima concentrato lo sforzo produttivo verso la produzione di armi, munizioni, merci e alimenti indirizzati agli alleati europei, beneficiando di una significativa ricaduta sul proprio ciclo economico, per poi ricorrere pienamente ad una economia di guerra dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbour dell’8 dicembre 1941. Da quel momento, l’economia di guerra registrò un’inevitabile accelerazione con il governo federale che divenne committente e acquirente addirittura di oltre la metà della produzione industriale nazionale, come vedremo in seguito.

Il modello di economia di guerra statunitense, contrariamente agli altri Paesi belligeranti, non risultò caratterizzato da una significativa pianificazione statale centralizzata tant’è che, ispirandosi alle logiche del mercato, il governo preferì agire principalmente sul lato della domanda, cercando di indirizzare l’offerta privata attraverso gli ordinativi, oltre a dotarsi di un apparato produttivo pubblico, fino a quel momento molto limitato. Tale politica economica determinò un considerevole afflusso di capitali verso le imprese, i quali rimasero a disposizione delle produzioni anche al termine della guerra, agevolati dal fatto che il territorio continentale degli Stati Uniti, non avendo subito distruzioni, non necessitava di corposi investimenti nella ricostruzione industriale, infrastrutturale e del patrimonio edilizio.

Infine, il sensibile aumento della presenza delle donne nelle fabbriche per sopperire alla chiamata alle armi di milioni di giovani maschi, la priorità assegnata ad alcuni comparti produttivi a discapito di altri, la conversione di molte produzioni in senso militare e la massimizzazione dello sforzo produttivo, determinarono inevitabilmente una riorganizzazione ed un efficientamento del lavoro che portò significativi benefici all’economia della fase post-bellica.

La fallace narrazione del “New Deal” risolutore della Grande Depressione

Con l’inizio della “Grande Depressione” innescata dal crollo della Borsa di Wall Street del 24 ottobre del 1929, il “giovedì nero”, il nuovo presidente democratico, Franklin Delano Roosevelt (1933-45), adottò fra il  1933 e il 1934 una serie di provvedimenti economici tesi ad aumentare la presenza dello stato nell’economia, a disciplinare settori economici totalmente derelegolamentati (come il Banking Act del 1933) e ad introdurre una riforma fiscale progressiva, passati alla storia come “Primo New Deal” (Nuovo corso).

Una volta conseguiti i primi risultati già dal 1934, il piano di Roosevelt iniziò ad incontrare crescenti resistenze sia da parte dei potenti trust economici e finanziari nazionali, che ricorsero anche ad una campagna stampa, che dal partito repubblicano e dai democratici conservatori, tutti contrari all’intervento statale nell’economia. Il doppio fuoco di sbarramento finì per imprimere un significativo depotenziamento al “New Deal” a causa di una serie di dichiarazioni di incostituzionalità, in merito ai provvedimenti economici adottati, emesse, fra il maggio del 1935 ed il corrispondente mese dell’anno successivo, dalla Corte Suprema Federale, in maggioranza composta da giudici nominati dai precedenti presidenti repubblicani.

Da quel momento in avanti, Il “New Deal” non sarà più in grado di determinare il profondo cambiamento nell’economia statunitense che era nei progetti di Roosevelt e dei suoi consulenti accademici. La sua portata si limiterà, come afferma il geografo marxista francese Pierre George “a manipolazioni monetarie, all’esecuzione di grandi lavori pubblici, segnatamente all’attrezzatura veramente notevole della valle del Tennessee col tramite delle Tennesse Valley Autorithy (Tva), al risveglio della coscienza sindacale e all’intervento finanziario dello Stato nella vita economica e sociale, con un disavanzo enorme delle pubbliche finanze, 5 miliardi di dollari all’incirca del 1935-36. Lo Stato rinuncia a dirigere l’assieme dell’economia, ma fa la sua parte di banchiere e di produttore, se non direttamente, almeno col tramite di uffici sovvenzionati (la Tva ne è un esempio), d’altronde, già prima dell’era rooseveltiana, il dipartimento dell’Interno è sempre stato il più importante fornitore d’energia degli Stati Uniti”.

Tale depotenziamento spingerà Roosevelt a correre ai ripari facendo approvare dal Congresso il “Secondo New Deal”, una nuova serie di riforme economiche e soprattutto sociali, in considerazione del fatto che il provvedimento più importante risultò il Social Security Act, finalizzato all’istituzione di un sistema di sicurezza e di protezione sociale. La misura introduceva, infatti, l’erogazione di contributi in caso di disoccupazione, vecchiaia e disabilità, tramite un fondo finanziato dai datori di lavoro, dai lavoratori e con risorse del bilancio federale.

La ripresa della produzione continuò anche nel corso del 1936 e nella prima parte del 1937 ma la mancata trasformazione del sistema produttivo e un settore statale troppo ristretto, non consentirono allo Stato di esercitare un’azione decisiva sull’intera economia federale. Ciò lasciò sostanzialmente invariato lo spazio di manovra della speculazione e delle grandi imprese nella ricerca dell’utile tramite la “razionalizzazione intensificata” dei fattori della produzione, determinando la ricomparsa degli squilibri fra il potere d’acquisto interno (la domanda) e l’offerta di beni, anche a seguito della riduzione della diminuzione della spesa pubblica federale che aveva portato quasi a sfiorare il pareggio di bilancio nel 1937.

Inoltre, non essendo in quegli anni migliorato il livello della domanda internazionale, il progetto di dare nuova linfa alla ripresa della produzione finì per creare le potenziali condizioni per una nuova crisi.

L’indice della produzione industriale elaborato dalla Federal Reserve, dopo aver toccato ad inizio del 1937 il valore di 99, nei mesi successivi intraprese una nuova ricaduta fino a 66,5 determinando una nuova espansione della massa dei disoccupati che oscillò fra i 13 e 14 milioni di unità. L’economia statunitense scivolò quindi nuovamente in recessione nel secondo semestre del 1937, rimanendoci per 13 mesi consecutivi fino alla seconda metà del 1938.

La produzione industriale subì un grave contraccolpo contraendosi di quasi il 30% e la disoccupazione dal 14,3% del maggio 1937 salì nuovamente al 19,0% del giugno del 1938, ritornando allo stesso livello del 1934.

Il governo statunitense in linea coi principi keynesiani, peraltro abbandonati in modo troppo repentino in quella fase secondo gli economisti di questa corrente, attuò quindi a partire dalla primavera del 1938 un grande piano di acquisti (pump-priming) per sostenere la domanda interna ed evitare un ulteriore aggravamento della situazione socio-economica, determinando un nuovo aggravamento del deficit federale che infatti tornò a superare i 4 miliardi di dollari nel 1939.

I grandi trust statunitensi, ai quali Roosevelt aveva allentato la precedente politica di coercizione, si lanciarono quindi con massicci investimenti alla conquista dei mercati internazionali al fine di trovare nuovi sbocchi alle proprie produzioni.

L’economia statunitense non essendo ancora riuscita a trovare all’inizio del 1939 al proprio interno i rimedi alla crisi economica strutturale che l’attanagliava da un decennio, beneficerà di li a qualche mese di un evento drammatico per la storia dell’umanità che le consentirà di uscire dalla “Grande Depressione” imprimendo nuovo slancio tecnologico e produttivo al settore industriale e all’intera struttura economica: la Seconda Guerra Mondiale.

Le peculiarità dell’economia di guerra statunitense

Lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, il 1 settembre 1939, fornì una prima importante spinta all’economia statunitense grazie alle forniture militari, industriali e agricole destinate ai paesi europei alleati, e una successiva accelerazione dopo l’8 dicembre 1941 con l’ingresso diretto nel conflitto, lasciando secondo Pierre George “come fenomeni accompagnatori sconvolgimenti nella struttura economica e sociale. I tre nuovi dati di fatto dell’economia statunitense sono rappresentati dall’elevazione considerevole del limite tecnico massimo, cioè del potenziale produttivo, dalla partecipazione enorme assunta dallo Stato nell’assistenza finanziaria concessa alla produzione e dall’importanza della mobilitazione umana nell’industria e nelle forze armate”.

L’economia statunitense iniziò quindi a risollevarsi e successivamente a svilupparsi celermente solo quando l’amministrazione fu costretta ad esorbitanti spese federali per sostenere lo sforzo bellico, sia in modo indiretto durante la prima fase del conflitto, ma soprattutto successivamente con il coinvolgimento diretto.

In base ai dati riportati da Pierre George, le produzioni industriali riguardanti la guerra registrarono, fra il 1939 e il 1944, una rapida impennata con tassi superiori al 100%, tant’è che il governo fu costretto ad intervenire in alcuni comparti per rallentarne l’eccessiva crescita temendo, memore della crisi da sovrapproduzione che aveva innescato il crack borsistico del 1929, di venire sopraffatto al termine del conflitto mondiale dall’impossibilità di trovare adeguato sbocco all’imponente produzione industriale raggiunta in quegli anni.

Gli incrementi maggiori riguardarono la cantieristica navale (+5.500%), l’industria aeronautica (+1.300%) e la produzione di macchine utensili +650%), in quanto l’economia di guerra statunitense, principalmente a partire dal 1942, si concentrò sul ringiovanimento delle strumentazioni produttive, sull’ampliamento della base industriale e sulla realizzazione di una imponente flotta da trasporto. Soprattutto in quest’ultimo campo i risultati furono strabilianti visto che la produzione cantieristica statunitense di un solo anno riuscì a superare il tonnellaggio totale della flotta britannica all’inizio della guerra.

L’economia di guerra Usa conobbe in quegli anni un’eccezionale crescita tant’è che fra il 1939 e il 1944 la produzione nazionale quasi raddoppiò e conseguentemente la disoccupazione dal 14% del 1940 scese a meno del 2% nel 1943, con la forza lavoro impiegata che crebbe di oltre quindici milioni di unità in soli 5 anni.

Come abbiamo visto in precedenza, il governo federale, che tramite il sistema del pump-priming e il finanziamento dei vari uffici d’integrazione già interveniva da alcuni anni in modo massiccio negli acquisti di materie prime e prodotti manifatturieri, con lo scoppio della guerra divenne il principale cliente dell’industria statunitense. In particolare tramite la trasformazione dell’organismo di soccorso delle aziende in difficoltà, il Reconstruction Finance Corporation (Rfc), in un ufficio di finanziamento dell’industria di guerra.

L’amministrazione Roosevelt, affinché il dirompente boom economico di quegli anni non presentasse risvolti catastrofici al termine della guerra, si adoperò nel tentativo di mettere lo Stato nelle condizioni di poter controllare la produzione e l’accumulazione degli enormi profitti che i grandi gruppi privati stavano conseguendo, sia direttamente tramite l’azione legislativa e di controllo del governo, sia attraverso i suoi enti  come la Defense Plant Corporation. la Rubber Reserve Co., il Marittime Committee, oltre al già citato Rfc.

Per mezzo di questi enti pubblici lo stato prese sotto la sua diretta gestione vecchie fabbriche tecnologicamente superate e quelle realizzate appositamente per le necessità belliche, in particolare quelle localizzate nell’Ovest del Paese che producevano semilavorati o componentistica per l’industria militare, come il comparto aeronautico, la cantieristica navale, la petrolchimica dedita alla realizzazione della gomma sintetica e la metallurgia dei metalli leggeri, con l’alluminio che registrò un aumento addirittura del 750%. 3).  

In sostanza, in quegli anni l’amministrazione federale anticipò 18 miliardi di dollari a scopi produttivi, una cifra enorme considerato che il valore dell’apparato industriale statunitense nel 1939 era stimato nell’ordine di 22,5 miliardi di dollari diventando, dopo lo scoppio della guerra, proprietaria di circa 3.000 officine e cantieri.

Nel contesto dell’economia di guerra statunitense, il governo articolò le proprie attività a sostegno delle produzioni in tre modalità distinte: assunse infatti funzione di finanziatore, di industriale diretto e di consumatore tramite acquisti a beneficio di un apparato industriale che ben presto assunse dimensioni mastodontiche arrivando a raggiungere nel 1944 un livello di produzione industriale pari a 200 miliardi di dollari.

Di questi, ben 98 miliardi risultavano frutto dell’imponente domanda federale comprendente anche la parte di aiuti destinati ai Paesi alleati in base agli accordi della legge “Prestiti e Affitti”, la “Lend-Lease Act”, che era stata approvata dal Congresso su input di Roosevelt l’11 marzo 1941, prima dell’ingresso diretto nel conflitto.

La dinamica del ciclo economico risultò quindi strettamente interconnessa al livello degli acquisti statali, tant’è che il bilancio federale ne uscì fortemente dilatato e, al pari del deficit, il debito pubblico subì una rapida impennata proprio a partire dal 1941, addirittura più che triplicando, al termine del conflitto, in rapporto al Pil, peraltro anch’esso in fase di rapida espansione.

La mobilitazione e la riallocazione della forza lavoro

Il confitto mondiale e il conseguente straordinario forzo economico e militare statunitense comportarono una maestosa mobilitazione di risorse umane, addirittura sensibilmente superiore rispetto all’impiego di manodopera in tempo di pace, persino alle fasi di più spiccata accelerazione economica.

Prendendo in considerazione come indicatore analitico l’entità della manodopera impiegata, comprendente anche le persone arruolate nelle Forze Armate, rileviamo come dai 48 milioni, pari al 37% della popolazione totale, del 1929, la stessa sia salita a 60,4 milioni, corrispondenti al 45% degli abitanti, risultanti però dal censimento del 1940 che rilevò la presenza di 132 milioni di residenti.

Passando, invece, all’analisi disaggregata per comparto economico della variazione della forza lavoro impiegata, emerge come l’incremento si sia concentrato quasi esclusivamente su due coppie di voci: industria e trasporti (+40% rispetto al 1939 e +12,5% in raffronto al 1929) e servizi pubblici e, ovviamente, Forze Armate, le quali registrarono un primo aumento nel corso del 1941 e successivamente un’impennata con l’entrata diretta in guerra. Le Forze Armate statunitensi dalle poche centinaia di migliaia del 1939 arrivarono a mobilitare un totale di 16 milioni di uomini nel corso dell’intero conflitto. Tali effettivi vennero reperiti in prima istanza dalla massa dei disoccupati, l’esercito industriale di riserva, che nel 1939 si attestava ancora sopra al 15%, dai sottoccupati e dagli impiegati in agricoltura che nel 1944 risultavano diminuiti di 2 milioni addetti, mentre nel settore bancario e nel commercio rimasero sostanzialmente stabili.  

Questo enorme dispiegamento di lavoratori e militari sotto la spinta dell’economia di guerra, poneva la problematica questione della loro riallocazione al termine del conflitto, la quale presentava complessità ancora maggiori a seguito del rapido sviluppo tecnologico degli impianti e dei macchinari industriali, con relativo sensibile aumento della produttività del lavoro. Ciò che Pierre George definisce la “razionalizzazione” delle forze produttive, indotta dall’innovazione tecnologica, determinò una generale diminuzione delle ore di lavoro per unità di prodotto, con inevitabili riflessi negativi sui livelli occupazionali. Ad esempio, se ad inizio conflitto erano necessarie 600.000 ore per costruire una nave della classe Liberty ship e 35.400 per un aereo Boeing B-17 Flying Fortress, meglio noto come “fortezza volante”, nel 1944 si erano ridotte rispettivamente a meno di 400.000 e 18.700.

Conseguentemente, ciò creò maggiori problematiche al riassorbimento dei 18 milioni di lavoratori, lavoratrici e militari, nel contesto dell’economia di pace del Dopoguerra, la quale dovette anche affrontare una complessa e mastodontica riconversione partendo dall’iniziale e fondamentale questione della tipologia di struttura economica da perseguire.

L’economia di guerra era stata caratterizzata da una sensibile espansione del settore pubblico nell’economia e da un controllo del governo Roosevelt sulle produzioni, seppur principalmente dal lato della domanda. Il suo successore, Harry Truman (1945-53), subentrato alla sua morte nell’aprile del 1945, benché democratico anch’egli, optò per una decisa svolta liberista restituendo al settore privato l’intero apparato produttivo pubblico, comprese le fabbriche impiantate durante il conflitto dalle agenzie federali con fondi pubblici, per far fronte alle necessità di guerra.

Dopo la lunga parentesi della presidenza Roosevelt, caratterizzata dal tentativo di introdurre l’intervento dello stato nell’economia, prima, in parte fallendo con il “New Deal”, e successivamente, riuscendoci con l’economia di guerra, la riconversione di quest’ultima avverrà all’insegna del liberalismo economico totale, nel cui contesto trarranno grandi giovamenti i trust nazionali, tant’è che già nel 1947, le principali 250 grandi aziende statunitensi arrivarono a possedere i 2/3 dell’apparato produttivo nazionale.

Conclusioni

Alla luce delle evidenze fuoriuscite dal nostro caso di studio possiamo concludere che risultò, quindi, l’economia di guerra, non il “New Deal”, a mettere fine alla decennale depressione. Tantomeno quest’ultimo riuscì a modificare in modo sostanziale la distribuzione del potere all’interno della società e dell’economia statunitense, accertato che determinò solo un piccolo, seppur significativo, beneficio per i ceti sociali più colpiti dalla Grande depressione.

L’economia di guerra non risultò tanto un trionfo della libera impresa, quanto il risultato dell’attività di finanziamento del governo che infatti registrò un eccezionale aumento del debito pubblico, il quale, in rapporto al Pil, come visto passò dal 40% del 1938 ad oltre il 120% nel 1945. Viceversa, per tutto il periodo del “New Deal” la disoccupazione risultò alta, mentre i consumi, gli investimenti e le esportazioni nette, i pilastri della crescita economica, rimasero su livelli bassi.

In definitiva, il forte sviluppo dell’industria militare necessario per sostenere il fronte di guerra europeo e quello pacifico, la riorganizzazione del lavoro e l’aumento delle produzioni trainato dalla mastodontica domanda federale e dalla crescita dell’export, anche di prodotti alimentari, verso i Paesi sostenuti da Washington, vale a dire l’economia di guerra del 1941-45, si rivelarono fattori fondamentali nell’ascesa degli Stati Uniti a ruolo di superpotenza mondiale, decretandone il definitivo sorpasso ai danni dell’Impero britannico, dopo aver compiuto quello in campo economico già al termine della Prima Guerra Mondiale.

Leadership consacrata proprio in quegli anni alla Conferenza di Bretton Woods del luglio 1944, durante la quale gli Usa capitalizzarono tutto il loro peso geopolitico, economico e militare riuscendo a far elevare il dollaro a moneta di riferimento degli scambi internazionali. Tali storici accordi portarono inoltre all’introduzione delle parità fisse fra le divise e della convertibilità del dollaro in oro, il cosiddetto Gold Exchange Standard (1944-71), che consenti alla valuta statunitense di assurgere alla funzione di moneta di riserva per le Banche centrali.

Inoltre, le sedi del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, istituzioni internazionali finanziarie fondate proprio in quel consesso a garanzia dell’ordine internazionale finanziario a guida statunitense, non casualmente furono stabilite a Washington.

Vennero in pratica gettate la basi per il conseguimento della leadership globale, prima condivisa con l’Urss durante il Bipolarismo e la Guerra Fredda, e successivamente esercitata in proprio dagl’inizi degli anni ’90 del secolo scorso, nella fase del dominio unilaterale. Unilateralismo che, peraltro, negli ultimi anni hanno iniziato a mettere in discussione le strategie delle nuove potenze emergenti che, raccolte nei Brics, anelano ad un ordine internazionale su base multipolare.

Nell’ottica di cercare di fornire una lettura della vicenda dell’economia di guerra statunitense della Seconda Guerra Mondiale attualizzata e contestualizzata ai paesi direttamente coinvolti nell’attuale conflitto in Ucraina, possiamo ricavare interessanti indicazioni in particolare rispetto alla situazione della Russia.

L’economia di guerra parziale adottata sino ad aggi dalla Russia mette in risalto, oltre ad importanti divergenze, anche alcuni significativi parallelismi con la situazione sopra analizzata, in relazione soprattutto alla tenuta stessa dell’economia russa durante il 2022 e addirittura alle performance economiche, secondo il Fmi, superiori, nonostante le sanzioni occidentali, a quelle dei paesi europei del 2023 e, in base alle previsioni di luglio scorso, anche del 2024. Ciò in quanto la dinamica economica russa, oltre alla capacità di aver reindirizzato l’export energetico, è legata come negli Usa del 1941-45 alla cospicua domanda pubblica e alle produzioni del settore statale che fanno leva su un sensibile deficit di bilancio, finanziato però attraverso le riserve monetarie accantonate nei fondi sovrani di Mosca, negli anni precedenti al 2022, quindi, almeno sino ad oggi, senza gravare eccessivamente sul debito pubblico

La Russia inoltre, come gli Stati Uniti durante il conflitto mondiale, non ha al momento subito importanti distruzioni sul proprio territorio e l’apparato produttivo è stato sensibilmente ampliato, soprattutto in relazione alle produzioni belliche, e soffre di congiunturale carenza di manodopera che ha comportato, al pari degli Usa del 1941-45, un significativo aumento dei salari e degli stipendi.

Ugualmente, è verosimile che al termine del conflitto al governo russo si presenti il problema della conversione della parziale economia di guerra sino ad oggi adottata, opera che tuttavia risulterà probabilmente meno complessa sia per la minor entità dello sforzo produttivo destinato alle attività belliche che per il più contenuto numero di militari e operai mobilitati.

E’ significativo, in conclusione, segnalare che le principali voci dell’export dell’economia di guerra integrale degli Usa del 1941-45 erano rappresentate da prodotti manifatturieri di vario genere e armamenti, mentre quello attuale della Russia si basa sui prodotti energetici e minerari, grezzi e semilavorati, quindi a minor valore aggiunto.

 

Andrea Vento

Gruppo Insegnanti di Geografia Autorganizzati

 

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