Il Presidente Xi JinpingIl Presidente Xi Jinping

BRICS, SCO E RCEP: LA NUOVA ERA DI XI IN UN MONDO COMPIUTAMENTE MULTIPOLARE

 

Rispettando le previsioni, il 22 ottobre scorso Xi Jinping è stato incoronato per un altro quinquennio quale leader politico della Repubblica Popolare. 
Con tale incoronazione, la Cina apre una pagina inedita nella sua organizzazione istituzionale, mentre la dirigenza del paese si avvia su un sentiero potenzialmente insidioso. 

Dopo la chiusura dei battenti del XX Congresso del Partito Comunista Cinese (Pcc), il neoeletto Comitato Centrale (203 componenti e 168 supplenti) ha nominato i 24 membri dell’Ufficio Politico, che ha poi scelto al suo interno i sette del Comitato Permanente (Xi Jinping, Li Qiang, Zhao Leji, Wang Huning, Cai Qi, Ding Xuexiang e Li Xi ), l’organo dove si concentra il potere supremo. 

Xi Jinping è stato confermato Segretario Generale del Partito e Presidente della Commissione Militare Centrale e nella prossima primavera sarà ri-eletto anche Presidente della Repubblica.

Insieme all’attuale premier Li Keqiang, escono di scena Li Zhanshu, Han Zheng e Wang Yang, che pure alla vigilia era indicato tra i candidati alla carica di Primo Ministro. Tra i subentranti, troviamo il capo del Partito a Shanghai, Li Qiang (che prenderà il posto di Li Keqiang), Cai Qi, Ding Xuexiang e Li Xi, tutti strettamente legati a Xi Jinping. I due rimanenti, Zhao Leji e Wang Huning, anch’essi fedelissimi del leader, restano al loro posto per un altro quinquennio. A cascata, tutte le cariche che contano, tra cui i responsabili della propaganda, della disciplina nel Partito e della lotta alla corruzione (quest’ultima strumento utilizzabile anche per far fuori i nemici politici) vengono attribuite a funzionari di indiscussa lealtà al Capo Supremo.

Per tutti, salvo eccezioni, l’esito del XX Congresso ha rappresentato un successo pieno per il leader attuale. Egli è riuscito a neutralizzare quelle frange del Partito che insieme ai malumori generati dalla strategia zero-Covid avrebbero potuto raccogliere i dissensi nascosti nei labirinti del Partito e nel paese (entrambi non facilmente misurabili).

Come spesso avviene, tuttavia, il diavolo si nasconde nei dettagli. Innanzitutto, avanzando alla testa dei Magnifici Sette verso il palco della Grande Sala del Popolo per incontrare i giornalisti, Xi Jinping ha offerto plastica evidenza di esser venuto meno ai suggerimenti di Deng Xiaoping, secondo il quale la dirigenza del Partito avrebbe dovuto rinnovarsi ogni due mandati, vale a dire dopo dieci anni di potere. Tale rottura con il passato (sia Jiang Zemin che Hu Jintao vi si erano attenuti) rischia ora di pesare come una spada sul capo di Xi Jinping. Secondo Deng, se il passaggio di consegne da una generazione a un’altra non avviene secondo tempi e modi prestabiliti, le istituzioni ne soffrono e cresce il rischio di destabilizzazione. Per il Piccolo Timoniere la senescenza anagrafica della nomenclatura, unita a quella politica, sarebbe stata una miccia sempre accesa sulla stabilità del sistema cinese, fondato come noto sulla cooptazione dall’alto. Le evidenze storiche erano lì a comprovarlo: in Unione Sovietica, una dirigenza incanutita e distante dal popolo era stata una causa sistemica della sua implosione e nella stessa Cina il tentato colpo di stato di Lin Piao nel 1971 era da attribuirsi alla maldigerita rimozione quale successore designato poiché, nella sua corretta percezione, Mao sarebbe stato detronizzato solo dalla morte.

Oggi, dunque, le istituzioni cinesi rischiano di inaugurare una rischiosa stagione dei veleni. 

Xi Jinping emerge dal Congresso come figura centrale, saldamente collocato al vertice della piramide, ma più solo di prima, anche se egli potrebbe persino ottenere un quarto mandato. Egli ha preferito guardare al modello di Mao, a un iconico, e fuori tempo, culto della personalità, piuttosto che a Deng, il geniale architetto del successo economico cinese. È verosimile che sia l’uno che l’altro si stiano rigirando nella rispettiva tomba, il primo perché Xi vuole imitarlo, il secondo per la ragione opposta

La centralizzazione del potere, è appena il caso di rilevare, porta con sé maggior rischio di errori, minor capacità di correzione e maggior disposizione al servilismo da parte dei collaboratori. Se la sopravvalutazione di sé è ovunque e per tutti una trappola infernale, in un paese di 1,5 miliardi di individui eventuali errori che ne sarebbero la conseguenza possono causare danni profondi a milioni e milioni di individui. Ne sono una prova le severe e poco giustificate misure anti-Covid che hanno generato inutili sacrifici alla popolazione e grave nocumento all’economia del paese.

Nei mesi/anni a venire, e non solo per l’avanzare dell’età, Xi potrebbe veder restringersi gli spazi d’azione e il potere di cui oggi dispone. Una volta ridottasi quella dimensione collegiale che, seppure in modo imperfetto, rifletteva un certo pluralismo nel Partito e nel paese, la Cina rischia di scivolare verso un eccesso di centralismo.

Sin dai tempi di Deng Xiaoping, la Lega della Gioventù – che con i suoi 90 milioni di iscritti costituisce il secondo binario dell’organizzazione politico-ideologica della Repubblica Popolare, e al tempo stesso la porta d’ingresso per i piani alti del potere – era stata sempre rappresentata nel Comitato Permanente. D’ora in avanti, il punto di vista di Xi non avrà contraltari, mentre viene infranto una tradizione che in Cina conta solitamente più della legge. Lo stesso Hu Jintao, il grande protettore della Lega della Gioventù, è stato umiliato con una defenestrazione immortalata in mondovisione: un innevessario atto di forza, forse sfuggito di mano a una ritualità solitamente inappuntabile. Una responsabilità di cui Xi Jinping, come molti ritengono, dovrà prima o poi rendere conto.

È possibile che il neo-incoronato capo della Cina potrebbe non essere consapevole di tali pericoli. Tuttavia, senza cadere in eccessi di pessimismo, il futuro di Xi Jinping e della Repubblica Popolare nel suo insieme si tingono di un’aggiunta d’incertezza. D’ora in avanti, avendo accentrato su di sé tanto potere e senza limiti di tempo, dopo aver cambiato Costituzione e Statuto del Partito, egli dovrà guardarsi le spalle. Nei sorrisi che offrirà alle telecamere e nelle quotidiane lusinghe dei fedelissimi, Xi cercherà la prova del tradimento, divenendo schiavo del sospetto, alla ricerca di quella incondizionata lealtà di cui non sarà mai certo.

La sua forte presa sul sistema non riduce le difficoltà di gestire un paese immenso, in uno scenario vieppiù complesso, tra tensioni in atto e conflitti in potenza, rallentamento economico, frustrazioni anti-Covid, frizioni con l’Occidente, la questione di Taiwan e una difficile ricerca di equilibrio tra Russia e Stati Uniti.

Quanto a Taiwan, uno dei temi più caldi della lista, se l’obiettivo della riunificazione con la madrepatria è stato formalmente inserito nella Costituzione da una decisione del XX Congresso, la questione resta nondimeno di natura squisitamente politica. La presidente taiwanese Tsai Ing-wen, commentando tali sviluppi, ha rilevato che l’isola non intende rinunciare alla sua sovranità e al suo sistema democratico, aggiungendo che la prospettiva di un confronto militare con la Cina non può essere un’opzione conveniente per nessuna delle due parti. Con un linguaggio fermo ma accomodante, Taipei suggerisce di affrontare le divergenze in modo pragmatico e pacifico, aspettandosi da parte di Pechino un’analoga postura.

In proposito, Xi aveva più volte ribadito che il principio un paese e due sistemi, oggi applicato a Hong Kong, consentirebbe anche a Taiwan di tornare alla madrepatria continuando a vivere in un sistema capitalista, diversamente dal resto della Cina. Una sottolineatura questa che non ha mai convinto la maggioranza dei taiwanesi, che preferiscono tenersi le loro istituzioni.

Pechino, va detto, ha sempre ribadito di voler lavorare alla riunificazione pacifica con l’isola (e il florido rapporto economico bilaterale, più proficuo per Taipei che per Pechino, sarebbe lì a dimostrarlo), pur non escludendo ogni possibile misura a questo fine, ivi compreso, in apparenza, un ipotetico ricorso all’uso della forza se le circostanze lo richiedessero, vale a dire in buona sostanza qualora Taiwan decidesse di dichiarare l’indipendenza formale dell’isola, contraddicendo la storica postura di una sola Cina. Qualora tale orientamento azzardato prendesse corpo, si aprirebbe uno scenario inedito e assai insidioso, che tuttavia in tanti anni di separazione dalla madrepatria la dirigenza dell’isola non ha mai preso in considerazione, poiché di tutta evidenza Taiwan di fatto indipendente lo è già. Non si vede dunque la ragione che potrebbe spingere Taipei ad avventurarsi du un sentiero foriero di guai, a meno che non cedesse alle lusinghe della strategia statunitense, che punta a una guerra (fino all’ultimo taiwanese) allo scopo di fermare l’ascesa della Cina, la nazione che più di ogni altra minaccia l’egemonia americana nel mondo.

Quanto all’intento, cui Xi ha fatto insistente riferimento nei suoi interventi, di investire maggiori risorse finanziarie, scientifiche e umane nella creazione di un potenziale militare di livello mondiale, la motivazione assunta è stata la necessità di affrontare le insidie provenienti da un Occidente a guida Usa sempre più minaccioso. Ne sarebbero la prova, per la dirigenza cinese, la nascita dell’Aukus (Australia, Regno Unito e Usa, cui potrebbe associarsi anche il Giappone) che ha palesi intenti anticinesi, e le posture di una Nato globale al servizio dell’unipolarismo americano che punta a contrastare una nazione situata all’altro capo del mondo e che nulla ha a che vedere con le dinamiche geopolitiche dell’Atlantico del Nord.

Quanto all’economia, il XX Congresso non ha postulato alcun cambiamento significativo, se non un’attenzione ancora maggiore a una presenza puntuale dello stato nei settori cruciali. Una dichiarazione d’intenti, quest’ultima, che accresce il fastidio del capitalismo neoliberista occidentale, centrato sul potere corporativo, che non ha mai abbandonato la speranza di mettere le mani sul paese attraverso la finanza corporativa che fa capo alla City di Londra e a Wall Street.

La Cina resta dunque un paese sviluppista, centrato sulla crescita economica a guida pubblica, nella quale il mercato ha un ruolo importante, ma non prioritario. Le scelte strategiche restano pertinenza dello stato e i gangli fondamentali dell’impalcatura sono controllati o appartengono allo stato. Anche le imprese private, alcune di notevoli dimensioni, devono allinearsi alle priorità e strategie del governo.

Ancor più dopo la nuova guerra fredda dichiarata a suo tempo da D. Trump, le priorità per la Cina restano la sovranità economica e l’autosufficienza nei settori economici fondamentali, pur consapevole che un certo grado di dipendenza dall’Occidente rimane inevitabile. La sua strategia non punta tuttavia al decoupling, che costituisce semmai una forte, seppure velleitaria, tentazione degli Stati Uniti. La tecnologia rimane fondamentale per entrambe le parti. Controllando i gangli cruciali, gli Usa mirano a contenere l’ascesa cinese, rinunciando a una diversa visione del mondo, quella basata sulla collaborazione nella costruzione di un mondo sostenibile, pacifico e in equilibrio. Si tratta d’altra parte di un’arma spuntata, alla luce dell’autonomia che Pechino conquista ogni giorno di più in ogni campo.

Infine, ed è questo un aspetto poco meditato da un Occidente insensatamente autocentrato, nella Repubblica Popolare è collocato il perno ineludibile per la ridefinizione degli equilibri di quel pianeta a trazione unipolare americana che era emerso al termine del secondo conflitto mondiale. Esso va ora acquisendo caratteristiche policentriche sempre più marcate, funzionali all’emersione di un pianeta multipolare, sintetizzabile in forma semplificata dai Brics – Brasile, Russia, India, Cina e Sud-Africa, il cui Pil aggregato si avvicina ormai a quello del G7 (intorno alla metà di quello mondiale) –, dalla Sco (Shanghai Cooperation Organization, di cui fanno parte Cina, Russia, Repubbliche ex-sovietiche, Pakistan, India e Iran) e dalla Rcep (Regional Comprehensive Economic Partnership), la più grande area di libero scambio al mondo, cui partecipano Brunei, Cambogia, Indonesia, Laos, Malaysia, Myanmar, Filippine, Singapore, Tailandia e Vietnam, insieme ad Australia, Cina, Giappone, Nuova Zelanda e Sud-Corea.

Ebbene, di queste tre organizzazioni (le prime due a contenuto politico, la terza economico) la Cina, già oggi la seconda economia al mondo in attesa di diventare la prima tra alcuni anni, costituisce il pilastro fondamentale. E la sua solidità e assertività rappresentano la precondizione di un mondo compiutamente multipolare.

 

Alberto Bradanini

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