I TALEBANI PRENDONO IL POTERE IN AFGANISTAN, MA COSA SUCCEDE IN ARABIA SAUDITA?
“L’Arabia Saudita ha tutte le condizioni perché sia la culla di un neo-rinascimento“. Questa e altre entusiastiche affermazioni nei confronti della Monarchia feudale del Re Salman Bin Abd Al-Aziz Al Saud furono pronunciate da un noto politico italiano, l’ex premier Matteo Renzi, nel gennaio 2021. Lo stesso Renzi che è stato uno dei principali attori della crisi Governo Conte al fine di imporre un governo sorretto dall’Alta Finanza dove la democrazia, i partiti e gli italiani hanno un ruolo di quart’ordine nel piano di ristrutturazione economica del Paese a favore dei potentati italiani e, soprattutto, stranieri.
Queste entusiastiche affermazioni non erano disinteressate in quanto inserite in un specifico contesto di “affari” a seguito della nomina a membro dell’Advisory Board dell’Istituto Future Investment Initiative, la fondazione del Re Salman creata all’inizio del 2020. Una fondazione che come teorico scopo quello di “garantire un futuro meraviglioso all’Umanità” e come pratico obiettivo quello di riabilitare l’immagine della dinastia monarchica As-Sudayriyyūn as-Sabʿah (Le Sette Dighe) fondata nel 1935 dal Re Abdulaziz del clan dei beduini di Neid, una zona situata nel centro dell’Arabia Saudita.
Il Clan Nejd rappresenta un terzo della popolazione saudita che con la violenza e l’uso del Islam come imposizione giuridica e giustificazione divina da 86 anni domina incontrastato su tutta la popolazione con diritto di vita e di morte sui cittadini considerati dei semplici sudditi. Il secondo obiettivo della Fondazione è quello di promuovere gli interessi della dinastia delle Sette Dighe nel mondo tramite “intermediari” e lobby di cui il noto politico italiano è entrato a far parte.
Il compenso pattuito di 80mila dollari annui, secondo quanto riferito da vari media italiani, sarebbe solo la punta dell’iceberg di una serie di vantaggi strettamente collegati ai successi del lavoro di lobby a favore della Dinastia.
Il primo successo registrato è la rivitalizzazione della cooperazione militare tra l’Italia e gli Emirati Arabi Uniti (alleati e cugini della Dinastia delle Sette Dighe) “superando le misure restrittive precedentemente assunte” come ha affermato lo scorso 5 agosto la commissione Esteri della Camera in una nota inviata al Parlamento europeo.
In parole povere il governo Draghi ha annullato la moratoria imposta dal governo Conte sulla vendita di armi agli Emirati Arabi Uniti che va in direzione opposta alle numerose risoluzione dell’Unione Europea che da anni chiede un embargo totale sulla vendita di armi agli Emirati e all’Arabia Saudita.
Oltre al lavoro di lobby sono pesati i ricatti e le pressioni che le due monarchie feudali arabe hanno inflitto all’Italia. Tra esse le pesanti limitazioni al commercio di prodotti italiani e la chiusura della base militare di Al-Minhad, snodo militare strategico per le missioni in Iraq, Corno d’Africa e Afghanistan che ha costretto i militari italiani presenti a ritornare a casa.
Con il senno del poi la chiusura della base militare di Al-Minhad rappresenta un sollievo per l’“ingrato” compito di difendere i valori democratici nel mondo, che l’Italia si era assunta coerentemente con gli accordi segreti del Patto Atlantico, stipulati nel dopoguerra e mai resi noti all’opinione pubblica. L’Iraq è fallacemente considerato sicuro. Dall’Afghanistan siamo scappati come ratti lasciando chi aveva sperato in noi e nella democrazia alla mercé del fanatismo primitivo e sanguinario dei Talebani. Nel Corno d’Africa corteggiamo e cerchiamo di riabilitare il regime nord coreano del dittatore Isaias Afwerki in Eritrea, mentre in Etiopia abbiamo deciso che si possono “scannare” tra di loro, in attesa di comprendere con quale vincitore dovremo trattare i nostri interessi economici nel futuro.
FarodiRoma, convinto sostenitore dei valori della democrazia, della solidarietà, della pace, dei diritti umani e dello sviluppo economico inclusivo non possono essere oggetto di scambio per interessi politici ed economici di bassa lega, propone ai lettori il rapporto 2021 sul Paese del “Neo-Rinascimento”, l’Arabia Saudita, redatto dalla associazione americana Human Right Watch. Un rapporto che, guarda caso, sembra essere stato ignorato dai media italiani.
Dal rapporto HRW emergono dati inquietanti su temi come libertà di espressione, associazione e convinzione; guerra e genocidio nello Yemen, la giustizia della Sharia; la condizione femminile e quella degli immigrati (trasformati dal Rinascimentale Re in schiavi senza diritti); le complicità internazionali. Libertà di espressione, associazione e convinzione. Complessivamente una barbarie che non ha nulla da invidiare a quella dei Talebani che stanno riappropriandosi dell’Afghanistan.
Le autorità saudite nel 2020 hanno continuato a reprimere i dissidenti, gli attivisti dei diritti umani e i chierici indipendenti. Gli attivisti per i diritti delle donne detenuti nel 2018 sono rimasti in detenzione tra cui Loujain Al-Hathloul, Mayaa Al-Zahrani, Samar Badawi, Nouf Abdulaziz e Nassima Al-Sadah.
Le prove dell’accusa contro i detenuti sono legate eslcusivamente all’attivismo per i diritti umani e il dissenso pacifico non graditi alla Dinastia delle Sette Dighe. Entro il novembre 2021 saranno emesse le condanne a morte. Tra i condannati vi è il prominente leader religioso Salman Al-Awda, le cui accuse erano collegate ai suoi presunti legami con la fratellanza musulmana e il sostegno pubblico per i dissidenti imprigionati.
Un’altra testa che rischia di rotolare nel paniere è quella di Hassan Farhan al-Maliki, studioso islamico arrestato in quanto sostenitore della corrente islamico Tafkira incentrata sulla corretta lettura del Corano. La corrente Tafkira contestualizza nello specifico periodo storico di Maometto, tutti i versetti che incitano alla guerra santa, considerandoli superati. Al loro posto si promuovono tutti i versetti che ineggiano alla moderazione, alla pace e alla tolleranza. Al-Maliki e la corrente Tafkira non possono essere tollerati dalla Dinastia delle Sette Dighe che si basa sulla faccia più violenta, intollerante e assolutista dell’Islam che si combacia perfettamente con il concetto di dominio egoistico e rapace del clan beduino dei Nejd.
Tra i detenuti in attesa di giudizio vi sono prominenti membri della famiglia reale, compreso l’ex principe della corona Mohammed Bin Nayef e il quinto figlio del Re Abdullah bin Abdulaziz Al Saud che regnò dal 2005 fino alla sua morte nel gennaio del 2015. Queste detenzioni non sono ufficiali ma in “incommunicado” e sono strettamente legate agli intrighi di palazzo identici a quelle delle monarchie del Medio Evo europeo.
A marzo, l’Arabia Saudita ha aperto un processo di massa contro 68 giordani e palestinesi detenuti a partire dal 2018 su vaghe accuse di legami con una non specificata “organizzazione terroristica”. I membri della famiglia dei detenuti hanno denunciato una serie di abusi delle autorità saudite comprese isolamento forzato, insufficiente regime alimentare e tortura. L’accusa di terrorismo si dovrebbe applicare in primo luogo alla Dinastia delle Sette Dighe ma, questo è un argomento tabù nel paese e tra i suoi alleati internazionali.
Dozzine di prominenti attivisti dei diritti umani sono detenuti senza processo e accuse. Tra essi Waleed Abu Al-Khair che sconta una condanna a 15 anni per aver rilasciato nel 2014 a media e social stranieri interviste sulle violazioni dei diritti umani in Arabia Saudita.
Con poche eccezioni, l’Arabia Saudita non tollera il culto pubblico con aderenti delle religioni diverse dall’Islam e discrimina sistematicamente contro le minoranze religiose sia cristiane che musulmane, in particolare quelle sciite e Islailite. Tutte le correnti religiose estranee al Islam sunnita subiscono pesanti discriminazioni nell’istruzione pubblica, libertà religiose e personali, occupazione, mentre il sistema giudiziario è loro avverso d’ufficio in quanto li considera (con evidente disprezzo) degli infedeli.
L’Arabia Saudita non ha leggi scritte riguardanti l’orientamento sessuale o l’identità di genere, ma i giudici usano i principi della legge islamica (Sharia) per sanzionare le persone sospettate di commettere relazioni sessuali prematrimoniali, adulterio e omosessualità. Se questi atti strettamente riguardanti la sfera sessuale personale, sono promossi in rete, i giudici utilizzano vaghe leggi anti crimine ciberneutico accusandoli di atti eversivi all’ordine e alla morale pubblici e di blasfemia contro l’unica religione: l’Islam Sunnita. Per tutti i reati “sessuali” è prevista la pena di morte.
A luglio, una corte saudita ha condannato Mohamad al-Bokari, un attivista blogger Yemenita, a 10 mesi di carcere, una multa di 10.000 riyal sauditi ($ 2,700) e la deportazione nello Yemen per aver pubblicato un video sui social media richiedendo il rispetto dei diritti umani per le donne e i gay. L’attivista nel giugno 2019 era stato ferito da terroristi islamici Yemeniti e si era rifugiato in Arabia Saudita come migrante clandestino.
Nel prossimo articolo parleremo dei crimini contro l’umanità commessi nello Yemen.
Fulvio Beltrami