Un caccia F35Un caccia F35

RICHIESTE DI INCREMENTO PRODUTTIVO BELLICO E VINCOLI REALI

di Herta Manenti

 

L’amministrazione Trump ha ripetutamente chiesto di potenziare la capacità produttiva militare degli Stati Uniti per far fronte alle crescenti minacce globali. Già la Strategia di Sicurezza Nazionale 2017 (durante il primo mandato Trump) riconosceva la necessità di una base industriale della difesa robusta e innovativa, evidenziando vulnerabilità nelle catene di fornitura. 

In vista di un possibile nuovo mandato, Trump ha ribadito l’intenzione di “ricostruire” il complesso militare-industriale statunitense, anche tramite dazi volti a rilocalizzare manifatture negli USA. Tuttavia, occorre valutare la sostenibilità reale di queste ambizioni, considerando i ritardi già accumulati nelle forniture agli alleati, gli effetti di sanzioni e dazi su materie prime strategiche, i possibili sviluppi post-conflitto ucraino e i limiti pratici all’espansione industriale, coinvolgendo anche partner come l’Italia.

Ritardi nelle consegne agli alleati USA (Taiwan e NATO)

Negli ultimi anni si è accumulato un consistente arretrato di forniture militari dagli USA verso i propri alleati, segno che l’industria bellica statunitense sta già operando al limite. In particolare, Taiwan attende armi ordinate da tempo per un valore di circa 21,9 miliardi di dollari (vendite approvate ma non ancora consegnate.Questo backlog comprende sistemi critici come missili Stinger e Javelin, missili anti-nave Harpoon, lanciarazzi HIMARS, carri armati e caccia avanzati. Ad esempio, Taiwan ha ordinato 66 nuovi caccia F16V nel 2019 (un affare da 8 miliardi di $), la cui consegna iniziale era prevista nel 2023 ma è slittata di circa tre anni, al 2026, a causa di problemi di catena di approvvigionamento e software. 

Allo stesso modo, i primi 108 carri armati Abrams M1A2T destinati a Taiwan (venduti nel 2019) hanno subito notevoli ritardi: solo a fine 2024 Taipei ha ricevuto un primo lotto di 38 Abrams (con anni di ritardo rispetto al piano originale) e non vi sono ancora date certe per i successivi arrivi. Queste lunghe attese sono allarmanti per paesi come Taiwan, esposti a potenziali aggressioni, e indicano i colli di bottiglia della produzione USA.

Anche diversi alleati NATO subiscono rallentamenti nelle forniture statunitensi. Per esempio, i caccia di quinta generazione F-35 – prodotti negli USA ma acquistati da molte aeronautiche europee – stanno arrivando con tempi dilatati. La Danimarca, che ne ha ordinati 27, ne aveva solo 4 consegnati a inizio 2024 e sta studiando soluzioni tampone a causa del calendario in ritardo. 

Il Belgio ha dovuto posporre di un anno l’arrivo del suo primo F-35 (ora atteso nel 2024) rispetto a quanto pianificato. Tali rinvii sono dovuti in parte ad aggiornamenti tecnologici (il pacchetto “Technology Refresh 3” ha bloccato la linea finché completato), ma riflettono anche la saturazione della capacità produttiva di Lockheed Martin nel soddisfare simultaneamente le esigenze USA e di oltre 10 paesi partner. 

Un altro esempio è la Polonia, che nel 2022 ha acquistato 250 carri armati Abrams M1A2 SEPv3 di ultima generazione: i primi sono sbarcati nel gennaio 2025, ma l’intera fornitura richiederà fino al 2026 per essere completata. Varsavia, temendo ritardi, ha parallelamente acquisito 116 carri Abrams usati (versione M1A1 rigenerata) consegnati entro il 2024, a riprova che gli alleati cercano soluzioni alternative (usato, altri fornitori) quando l’industria USA non riesce a tenere il passo.

Questi ritardi segnalano che l’industria bellica statunitense opera già al limite della sua capacità in vari settori. Sistemi complessi come aerei e carri armati richiedono anni per essere prodotti e consegnati in quantità significative. Di conseguenza, incrementare ancora la produzione per rispondere alle richieste di Trump (es. fornire più armi anche a nuovi clienti o aumentare le scorte) rischia di allungare ulteriormente i tempi di consegna, a meno di investimenti strutturali notevoli.

Sanzioni, dazi e costi: l’impatto sulla filiera industriale

Le ambizioni di espansione produttiva devono fare i conti con le turbolenze nelle catene di fornitura globali, acuite da sanzioni internazionali e barriere commerciali introdotte negli ultimi anni. L’amministrazione Trump, con la sua politica dei dazi, ha imposto tariffe del 25% sull’acciaio e del 10% sull’alluminio importati già nel 2018 (poi portate al 25% anche sull’alluminio nel 2020. Tali provvedimenti, motivati dall’intento di proteggere l’industria nazionale, hanno però aumentato il costo delle materie prime metalliche per i costruttori statunitensi. Navi da guerra, veicoli corazzati e aerei richiedono enormi quantità di acciaio/alluminio: gli esperti avvertono che dazi generalizzati su questi materiali farebbero lievitare i costi e dilatare i tempi nei cantieri navali e negli stabilimenti di mezzi corazzati. 

In altri termini, l’obiettivo di potenziare rapidamente la produzione bellica potrebbe essere vanificato se i produttori subiscono rincari e scarsità di input chiave. Già durante la pandemia di Covid-19 la filiera aveva sofferto carenze di componenti e logistica, costringendo il Pentagono a rinegoziare contratti e rifinanziare programmi a causa dell’inflazione esplosa sui costi industriali. Immaginiamo quindi l’effetto di dazi aggiuntivi o guerre commerciali: i costi salirebbero “come il petrolio” – nota un analista – trasmettendosi a cascata su tutti gli acquirenti globali.

Le sanzioni internazionali conseguenti a conflitti geopolitici aggiungono ulteriori pressioni. Dopo l’invasione russa dell’Ucraina (2022), le sanzioni occidentali hanno tagliato l’accesso a materie prime strategiche russe, ad esempio titanio e nickel utilizzati in aerospazio e missilistica. La Russia era il terzo produttore mondiale di titanio (forniva  il 30% del titanio a Boeing e ai maggiori produttori di motori  aeronautici) nonché un grande esportatore di nickel. Venendo meno queste fonti, i produttori USA hanno dovuto rivolgersi ad altri paesi (es. Giappone, o persino la Cina che è il primo produttore di titanio), spesso a costi più elevati. Inoltre, l’Ucraina era fornitrice del 70% del neon mondiale, gas fondamentale per i laser nella produzione di semiconduttori. La guerra ha quindi aggravato la carenza di microchip a livello globale, colpendo anche l’industria degli armamenti che richiede elettronica avanzata. 

Parallelamente, la competizione tecnologica USA-Cina sta generando restrizioni incrociate sulle esportazioni di materiali hi-tech: nel 2023, la Cina ha vietato l’export verso gli USA di minerali critici come gallio, germanio, antimonio e altre terre rare impiegate in semiconduttori e sistemi militari. Queste ritorsioni cinesi, in risposta ai controlli USA sui chip, rischiano di creare colli di bottiglia nell’approvvigionamento di componenti elettronici e leghe speciali indispensabili per missili, radar e veicoli. Dunque, anche se si volesse aumentare la produzione di armamenti, la disponibilità di materie prime e componenti specializzati non è affatto garantita in uno scenario di sanzioni incrociate: occorre tempo e investimenti per sviluppare fornitori alternativi o filiere nazionali (ad esempio nuove miniere di terre rare negli USA, riciclaggio di metalli, etc.).

In sintesi, sanzioni e dazi tendono a rallentare e rincarare la produzione bellica, almeno nel breve-medio termine. L’amministrazione Trump vedeva in queste misure un mezzo per forzare il rimpatrio di produzioni strategiche negli Stati Uniti, ma nell’interregno gli effetti negativi possono essere significativi: incrementi di prezzo generalizzati per acciaio, alluminio e altri input, con impatto diretto sul costo di ciascun sistema d’arma, e possibili ritardi aggiuntivi se qualche componente critico diventa introvabile (come i microchip durante la crisi 2021-22). I costruttori difesa potrebbero richiedere fondi extra o subire erosione di margini per assorbire questi costi, mettendo in dubbio la sostenibilità economica di una rapida espansione produttiva senza adeguati incentivi governativi.

Effetti della fine del conflitto in Ucraina sulla capacità produttiva

Un fattore chiave per valutare la sostenibilità del potenziamento industriale bellico è l’andamento della domanda bellica globale, fortemente influenzata dalla guerra in Ucraina. Dal 2022 gli Stati Uniti e gli alleati NATO hanno fornito a Kiev enormi quantità di armamenti dai propri arsenali, creando un’urgenza di rimpiazzo che ha spinto in alto la produzione di munizioni, missili e mezzi. Se il conflitto in Ucraina terminasse, questa domanda straordinaria potrebbe ridursi, “liberando” parte della capacità produttiva oggi assorbita dalle esigenze ucraine. In teoria, la fine della guerra allenterebbe la pressione immediata sulle linee di produzione, permettendo di ridistribuire output verso altri scopi: ad esempio evadere più rapidamente gli ordini in arretrato per Taiwan o altri alleati, oppure ricostituire le scorte strategiche statunitensi.

Va però considerato che una fine del conflitto non eliminerebbe certo le esigenze di sicurezza: verosimilmente gli Stati Uniti dovrebbero ricostruire i propri magazzini dopo i prelievi per Kiev (al 2023 avevano trasferito armamenti per quasi 24 miliardi $ dai depositi tramite il meccanismo PDA) e continuare a equipaggiare l’Ucraina per la sua difesa a lungo termine. 

Dunque molte linee produttive (dalle munizioni d’artiglieria ai missili antiaerei) resterebbero attive per rifornire e addestrare l’esercito ucraino post-bellico e contemporaneamente rimpiazzare missili Javelin, Stinger, proiettili da 155 mm e altri materiali ceduti dagli stock USA ed europei. In sostanza, la fine dei combattimenti potrebbe semplicemente spostare l’obiettivo della produzione: meno invii urgenti “di consumo” al fronte, più ordini per riempire arsenali e consegne pianificate ad alleati.

Un vantaggio sarebbe la maggiore prevedibilità: senza il fabbisogno imprevedibile di una guerra attiva (dove l’utilizzo di munizioni è altalenante e dipende dall’andamento operativo), i produttori possono pianificare cicli più regolari e ottimizzare l’aumento di capacità. Ad esempio, durante il conflitto il consumo di artiglieria ucraino (anche 3-5000 colpi al giorno) ha imposto di accelerare drasticamente la produzione di proiettili 155 mm; a guerra finita, il ritmo di utilizzo calerebbe e consentirebbe di accumulare scorte.

Paradossalmente, la spinta a potenziare l’industria bellica potrebbe non sparire con la pace, ma anzi istituzionalizzarsi. 

La lezione del conflitto ha evidenziato la necessità di capacità industriale di riserva: NATO e USA stanno già pianificando di mantenere linee aggiuntive e fornitori multipli attivi per non farsi trovare impreparati. Per esempio, nel 2024 tutti i 32 alleati NATO si sono impegnati congiuntamente ad aumentare la produzione industriale per la difesa e a coordinare i piani nazionali di potenziamento della capacità. Ciò significa che, anche dopo l’Ucraina, gli investimenti in produzione bellica continueranno, indirizzati alla deterrenza di future minacce (Russia, ma anche la Cina nel Pacifico). Gli Stati Uniti avranno quindi un “segnale di domanda” sostenuto nel tempo, alimentato sia dalle proprie esigenze di riarmo sia dagli acquisti degli alleati. 

Analisti del CSIS notano come l’assistenza militare a Kiev rappresenti un’opportunità irripetibile per rivitalizzare la base industriale US e correggere debolezze strutturali, grazie ai fondi già stanziati dal Congresso: su 113 miliardi $ approvati per l’Ucraina, circa 68 miliardi verranno investiti nell’industria USA (ordini a fabbriche nazionali. Questo flusso di commesse, protratto magari oltre la guerra, può giustificare l’apertura di nuovi impianti o l’espansione di quelli esistenti sapendo che non resteranno senza lavoro subito dopo la fine del conflitto.

In conclusione, la fine della guerra in Ucraina ridurrà l’urgenza bellica a breve termine ma non eliminerà la necessità di alta capacità produttiva. Più che un calo drastico, è plausibile una rimodulazione della produzione: da “modalità emergenza” a un ritmo comunque elevato ma pianificato, rivolto a rifornire alleati e consolidare la deterrenza. Ciò potrebbe perfino accelerare le consegne arretrate (ad es. sbloccando forniture a Taiwan precedentemente rimandate), a patto che l’industria non smobiliti le capacità aggiuntive acquisite durante la guerra. Un rischio infatti è che, cessata la percezione di crisi, parte dei fondi venga tagliata e le aziende riducano di nuovo la produzione; ma dati i persistenti scenari di tensione internazionale, i governi occidentali appaiono intenzionati a mantenere alta la spesa militare (nel 2023 la spesa mondiale ha toccato un record di 2.440 miliardi $, +6,8% in termini reali rispetto al 2022, con gli USA al primo posto con 916 mld $) e a sostenere l’industria bellica nel lungo periodo.

Possibilità di espansione industriale negli USA e ruolo di altri paesi

Nel concreto, quanto velocemente e fino a che punto si può espandere la produzione bellica negli Stati Uniti? Gli ultimi due anni hanno visto alcuni progressi significativi, ma anche evidenziato vincoli difficili da superare rapidamente. Un caso emblematico è la produzione di munizionamento pesante: all’inizio del 2022 gli impianti statunitensi producevano circa 14.000 proiettili d’artiglieria da 155 mm al mese; grazie ad investimenti urgenti, la produzione è raddoppiata a 28.000 al mese entro fine 2023 e il Pentagono punta a raggiungere 100.000 colpi/mese nel 2025. Si tratta di un incremento imponente (sette volte maggiore rispetto a prima della guerra), ottenuto riattivando linee di assemblaggio, assumendo nuovo personale e finanziando fornitori secondari anche all’estero. Ad esempio, è stata aperta una nuova fabbrica per bossoli in Canada e sono stati coinvolti partner come l’Australia per aumentare la disponibilità di esplosivi e componenti. Questo dimostra che, con sufficienti risorse (oltre 5,5 miliardi $ stanziati solo per le munizioni (Fact Sheet on Efforts of Ukraine Defense Contact Group National …)) e coordinamento, l’industria USA può crescere di capacità in tempi relativamente brevi (2-3 anni per risultati tangibili).

Tuttavia, non tutti i segmenti sono scalabili con la stessa facilità delle “bombe e proiettili”. I sistemi d’arma high-tech e complessi richiedono cicli più lunghi: riaprire o ampliare una linea di produzione missilistica può richiedere anni. Un esempio: la Raytheon aveva cessato da tempo la produzione dei missili portatili Stinger (MANPADS) dopo la Guerra Fredda; allo scoppio della guerra in Ucraina, questi sistemi erano di nuovo richiestissimi ma rimettere in piedi la linea produttiva ha richiesto circa 30 mesi. La Raytheon ha dovuto richiamare ingegneri in pensione settantenni per istruire i giovani operai su come costruire un missile progettato negli anni ‘70, e affrontare la sostituzione di componenti obsoleti non più in produzione. L’Esercito USA ha ordinato 1.700 nuovi Stinger a metà 2022, ma non vedrà le prime consegne prima del 2025-26. Questo caso illustra bene come la base industriale americana abbia perso alcune capacità produttive nel periodo di minore domanda (post-Guerra Fredda) e debba praticamente ricostruirle da zero, con tempi incompatibili con le esigenze immediate.

Un altro limite strutturale è la disponibilità di manodopera specializzata e di subfornitori. Molti settori della difesa USA sono ormai concentrati in pochi grandi appaltatori (Lockheed Martin, Boeing, Raytheon, General Dynamics, Northrop Grumman) che a loro volta dipendono da un ecosistema ristretto di fornitori di componenti unici. Il rapporto del Pentagono sullo stato dell’industria (avviato da Trump nel 2017) evidenziava rischi di “estinzione domestica” per vari subfornitori critici, con singoli punti di vulnerabilità nella supply chain. Ad esempio, se solo un’azienda produce motori a razzo o chip rad-hard e questa fatica ad aumentare i ritmi, l’intero output nazionale di missili ne risente. Formare nuovi tecnici, aumentare linee di montaggio e qualificare nuovi subfornitori richiede anni di sforzi e investimenti sostenuti. Finora, il Congresso e il Dipartimento della Difesa hanno messo in campo fondi e incentivi (come contratti pluriennali garantiti, finanziamenti diretti tramite Defense Production Act e acquisti anticipati) per incoraggiare l’industria ad assumere rischio e ampliare la capacità. Ma la sostenibilità a lungo termine dipenderà dal mantenimento della domanda: le aziende espanderanno stabilimenti solo se sicure che gli ordinativi resteranno alti (o che l’export colmerà eventuali cali domestici).

In questo contesto, altri paesi alleati possono giocare un ruolo importante sia come partner industriali sia come parte della domanda. L’Italia, ad esempio, è uno dei membri NATO che vantano un’industria della difesa avanzata e integrata con quella statunitense. Colossi italiani come Leonardo e Fincantieri già collaborano strettamente con gli USA: Leonardo co-produce componenti dell’F-35 (assemblando anche velivoli per l’Europa nello stabilimento di Cameri) e fornisce elicotteri e sensori agli americani; Fincantieri, tramite la controllata Marinette Marine, sta costruendo le nuove fregate lanciamissili della US Navy (classe Constellation) su design italiano. Queste partnership dimostrano che espandere la produzione bellica non significa necessariamente far tutto in patria: coinvolgere alleati fidati può aumentare capacità in modo condiviso. Ad esempio, per accelerare l’invio di sistemi d’arma, gli USA potrebbero affidare ad aziende europee (italiane comprese) la produzione su licenza di munizioni o parti di ricambio. Già durante la crisi ucraina, gli alleati UE hanno attinto a scorte e produzioni interne (ad esempio, fabbriche in Repubblica Ceca, Slovacchia, Bulgaria hanno riaperto linee per munizioni standard sovietico richieste da Kiev). Con un coordinamento NATO, si potrebbe ottimizzare l’uso della capacità industriale combinata dell’Alleanza: alcune nazioni producono certi tipi di munizioni o equipaggiamenti mentre altre investono in diversi segmenti, evitando duplicazioni e colli di bottiglia. L’Italia potrebbe, forte della sua competenza in ambiti come l’aerospazio, elettronica e cantieristica, aumentare la quota di subfornitura per programmi statunitensi o NATO, beneficiando economicamente del riarmo globale. Non a caso, le esportazioni militari italiane sono cresciute dell’86% nell’ultimo periodo quinquennale, rendendo l’Italia il sesto esportatore di armi al mondo. 

Oltre il 60% dell’export italiano va in Europa o in Nord America, segno di un’integrazione transatlantica forte. Se gli USA cercano di aumentare rapidamente arsenali di droni, artiglierie o veicoli, possono trovare in aziende italiane (e di altri alleati UE) dei partner per co-produzioni, alleggerendo la pressione sull’industria domestica. Ad esempio, l’Italia costruisce e vende addestratori avanzati M-346, cannoni navali, mezzi corazzati leggeri e munizioni di vario calibro: tutte competenze spendibili per colmare lacune nella produzione NATO. Inoltre, iniziative congiunte UE-NATO come il Defense Production Action Plan e l’Industrial Capacity Expansion Pledge del 2023-24 mirano proprio a sinergizzare la base industriale degli alleati per evitare che solo pochi paesi debbano provvedere a tutti.

Va detto che coinvolgere altri paesi comporta anche dipendenze incrociate e considerazioni politiche (licenze di esportazione, standard differenti, ecc.), ma di fatto il mercato globale della difesa è sempre più interconnesso. In uno scenario di forte domanda, i fornitori extra-USA possono integrare l’offerta: ad esempio la Corea del Sud ha fornito rapidamente obici K9 e razzi a paesi NATO per rimpiazzare quelli dati all’Ucraina; similmente, potrebbe toccare all’Italia o ad altri partner riempire alcuni gap (come fornire ulteriori sistemi di difesa aerea, droni o munizioni di precisione, settori dove l’industria europea è competitiva). Per gli USA, questo significa poter espandere la capacità “complessiva” disponibile senza dover costruire ogni singolo pezzo sul suolo americano – un aspetto cruciale se si vuole reagire in tempi rapidi a più crisi simultanee.

Uno scenario realistico per il futuro prossimo

Considerando tutti questi fattori, uno scenario realistico per i prossimi anni vede gli Stati Uniti impegnati in un rafforzamento graduale ma costante della propria industria bellica, piuttosto che in una crescita esplosiva immediata. Le richieste ambiziose in stile Trump – come aumenti massicci e rapidi – si scontrano con vincoli tecnici e di mercato, ma hanno comunque innescato un processo: oggi Washington e gli alleati riconoscono la necessità di avere maggiori scorte e capacità produttive di riserva. Entro il 2025-2026, grazie ai piani già finanziati, gli USA dovrebbero riuscire a incrementare sensibilmente la produzione di molti munimenti (decuplicando per alcuni tipi di missili e artiglieria rispetto al 2021) e a ridurre parte dei ritardi cronici nelle consegne. Ad esempio, l’obiettivo di 100k colpi d’artiglieria/mese, se centrato, permetterebbe di colmare il fabbisogno non solo per Ucraina ma anche per ricostituire i depositi USA e fornire alleati NATO minori. Alcuni grandi programmi (F-35, Abrams, sistemi antiaerei) continueranno ad avere code di attesa pluriennali, ma si potranno mitigare condividendo il carico con partner (es.: F-35 assemblati anche in Italia; carri armati e obici acquistati da paesi terzi in aggiunta a quelli USA).

Dal lato delle materie prime, gli Stati Uniti probabilmente consolideranno accordi con paesi amici per assicurarsi forniture stabili: ad esempio più titanio dall’Australia o dal Giappone al posto di quello russo (Russia Ukraine impact on A&D), maggior estrazione domestica di terre rare (sostenuta da investimenti federali), catene “friend-shoring” per semiconduttori avanzati (grazie anche a leggi come il CHIPS Act). Questo ridurrà nel medio termine l’impatto di sanzioni e dazi, rendendo la filiera bellica più resiliente e prevedibile. Resterà però un aumento strutturale dei costi: produrre “in casa” materiali precedentemente importati a basso costo comporta spese maggiori, che incideranno sui bilanci della difesa. 

Ci si può attendere che il budget USA (già oltre 900 miliardi $ annui continui a crescere almeno in linea con l’inflazione, e che i paesi NATO europei aumentino sensibilmente la propria spesa (la spesa militare europea nel 2023 è cresciuta dell’11% – un balzo senza precedenti (The Secretary General’s Annual Report 2023, 14-Mar.-2024 – NATO) – e paesi come la Polonia mirano al 4% del PIL in difesa). Questo boom di investimenti fornirà mercato sufficiente perché le industrie espanse restino attive. Ad esempio, l’industria italiana della difesa, che ha raggiunto 40,7 miliardi € di fatturato aggregato nel 2023 (A snapshot of Italy’s growing defence industry – Decode39) con oltre due terzi dalle esportazioni, potrà trarre vantaggio dal crescente procurement europeo (68% delle vendite italiane sono export, in gran parte verso Europa e Americhe (A snapshot of Italy’s growing defence industry – Decode39)). L’Italia, aumentando il suo bilancio difesa verso l’obiettivo NATO del 2% PIL, diventerà essa stessa un cliente più importante per sistemi d’arma avanzati (alcuni dei quali magari prodotti localmente su licenza), alimentando ulteriormente il settore.

In definitiva, le richieste di Trump di “riforgiare l’arsenale d’America” non sono del tutto irrealistiche, ma la loro attuazione è lenta e onerosa. La sostenibilità sta nel trovare un equilibrio: investire per eliminare colli di bottiglia critici (come è stato fatto per i proiettili 155 mm e alcuni missili, pianificare la produzione su orizzonti pluriennali in modo da dare certezze all’industria, e sfruttare pienamente la cooperazione con alleati fidati per condividere l’onere. Uno scenario plausibile al 2025-2026 vede gli USA aver rafforzato la propria base industriale con nuovi impianti e manodopera (magari giovani formati dai veterani prima che vadano in pensione definitivamente), aver smaltito una parte dei ritardi nelle forniture a Taiwan (con consegna dei primi nuovi F-16 e ulteriori lotti di Abrams entro il 2026 e ai membri NATO, e insieme agli alleati europei aver creato meccanismi di coordinamento industriale (come acquisti comuni di munizioni in UE, standardizzazione di calibro ecc.) che rendano la produzione più efficiente. Non si tornerà ai ritmi frenetici dell’epoca bellica in Ucraina, ma il livello di output resterà significativamente più alto rispetto a prima del 2022, segnando un nuovo baseline per l’industria della difesa occidentale. In altre parole, le fabbriche riattivate non verranno chiuse: alcune linee potranno ridurre i turni se la domanda cala, ma rimarranno pronte ad aumentare di nuovo all’occorrenza, e molte rimarranno impegnate a evadere ordini esteri grazie al clima geopolitico instabile (si pensi alla tensione su Taiwan, che potrebbe generare altre urgenze).

Il mercato globale della difesa dunque continuerà a crescere, anche se forse a un tasso più moderato dopo il picco ucraino. Finché le grandi potenze e le alleanze investiranno in deterrenza, la spinta ad aumentare capacità produttiva troverà giustificazione. La sfida per gli USA sarà gestire questa espansione senza incorrere in inefficienze o colli di bottiglia: diversificando forniture, formando nuova manodopera qualificata, incentivando la concorrenza nel settore (per evitare dipendenze da un singolo fornitore) e mantenendo collaborazione stretta con partner come Europa, Canada, Australia, Giappone. In conclusione, le richieste di Trump di potenziare l’arsenale USA sono sostenibili solo come progetto pluriennale, non con una semplice “fiat” presidenziale: richiedono investimenti ingenti, adattamenti alle condizioni economiche (dazi/sanzioni) e il sostegno di un mercato internazionale disposto ad assorbire l’aumentata produzione. I dati attuali indicano che questo percorso è già iniziato e sta producendo risultati (pur tra difficoltà), delineando uno scenario in cui gli Stati Uniti – in sinergia con gli alleati – avranno una maggiore prontezza industriale bellica per affrontare le sfide future, rispetto alla situazione pre-2022.

 

Herta Manenti

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