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LA CRISI IDENTITARIA DELL’IRAN TRAVOLTO DALLE CONTESTAZIONI: L’ETEROGENEITA’ DI UN PAESE RADICALMENTE PERSIANO

di Bruno Bevilacqua 

 

Le proteste che hanno preso luogo in Iran in seguito alla morte della ventiduenne Mahsa Amini lo scorso 16 settembre mostrano delle novità rispetto alle passate manifestazioni di dissenso che dal 1979 hanno colpito la Repubblica islamica.

Quando si parla d’Iran raramente si tiene presente che il paese è fortemente frammentato da un punto di vista etnico e linguistico. Secondo minorityrights.com, nel 2017 il paese era composto per un 16% da cittadini di etnia turco-azera, per un 10% da curdi e per una percentuale minore da altri gruppi etnici (come i lur, i beluci, gli arabi, i turkmeni, gli armeni e gli assiri). Va inoltre tenuto presente che alcune di queste comunità vivono la tragica situazione di una doppia discriminazione etnico-religiosa, come ad esempio la popolazione curda, una parte degli azeri, i beluci e i turkmeni, professanti la corrente sunnita dell’Islam.

Per aiutarci a comprendere il rapporto tra queste realtà e lo Stato, ci riferiamo alla definizione di nazionalismo iraniano del Professore Barzoo Eliassi secondo il quale esso è “l’essenza della supremazia iraniana in una società radicalmente eterogenea”. Supremazia che si impone anche con il braccio armato del Governo, denunciato più volte da Amnesty International per aver perseguitato le comunità non iraniane, in particolare per aver devastato villaggi curdi ammazzando migliaia di persone e per aver ripetutamente disposto la pena capitale dopo processi sommari.

In realtà, la “persianizzazione” è un obiettivo che la classe politica del paese aveva perseguito già da prima dell’instaurazione del regime islamico. Infatti, limitandoci al Novecento, lo Shah Reza Pahlavi, padre del nazionalismo iraniano, perseguì un’autoritaria politica di assimilazione linguistica promuovendo l’utilizzo del farsi a discapito delle altre lingue esistenti. Allo stesso modo oggi, seppur la Costituzione preveda la libertà linguistica all’articolo 15, e nonostante l’Iran abbia firmato numerose Convenzioni Internazionali – come la Convenzione sui diritti dell’infanzia – che indicano la protezione e la promozione delle lingue minoritarie, è molto difficile per i bambini che non parlano persiano nel contesto familiare riuscire in un ambiente scolastico incentrato sulla lingua di Stato e solo nel 2016 sono stati introdotti corsi universitari di lingua azera e curda senza una considerevole pressione politica per limitarli. Sempre nel nome dell’unità linguistica, il governo scoraggia puntualmente l’utilizzo di nomi non propriamente persiani, rendendo spesso impossibile dare al proprio figlio un nome curdo o azero. Tutto questo, insieme ad altre politiche sfavorevoli per i madrelingua di lingue minoritarie, contribuiscono a irrigidire le barriere culturali tra i vari ceppi linguistici all’interno del paese. Le discriminazioni nei confronti dei cittadini non persiani toccano però anche l’aspetto sociale ed economico. Il relatore speciale delle Nazioni Unite ha infatti affermato, nel 2019, che l’istituto del gozinesh – al quale sono sottoposti i candidati ai posti di lavoro pubblici – comprende “investigazioni condotte dal Consiglio Supremo per la Selezione e il Ministro dell’Intelligence volte ad accertare l’accettabilità delle credenze del candidato, le sue precedenti opinioni politiche e affiliazioni, e il pentimento per ogni precedente opinione o affiliazione stabilite nella Legge di Selezione basata sugli Standard Etici e Religiosi del 1995”.

Le discriminazioni economiche sono dovute inoltre alle disparità tra gli investimenti pubblici nelle regioni curde, azere o nel Belucistan, rispetto a quelle propriamente iraniane. Le scarse condizioni abitative, le ricorrenti espropriazioni di terreno e gli sgomberi in questi territori sono stati anche questi notati dal relatore speciale delle Nazioni Unite, il quale ha chiesto alla Repubblica Islamica dell’Iran di porre fine a tali atti discriminatori che amputano le ambizioni sociali e professionali degli abitanti di queste regioni.

Nonostante l’oppressione sia una condizione condivisa da tutte le comunità minoritarie del paese, queste non erano riuscite, almeno fino a oggi, a fare fronte comune contro un regime che cerca di appiattirle e dissolverle in una grande realtà persiana. Le rivendicazioni identitarie sono rimaste quindi per anni isolate tra di loro e con il resto del paese. Lo scorso 16 settembre, l’uccisione di Mahsa Amini, donna curda, ha fatto esplodere la solidarietà per la segregazione delle donne in Iran. Alle proteste delle periferie si sono uniti sorprendentemente i centri di grandi città. Infine, per la prima volta, il simbolo dell’ingiustizia di Stato ha unito le regioni e superato le divisioni etniche. Ultimamente nelle strade si sentono slogan del tipo “Da Tabriz a Sanandaj, da Teheran a Mashhad”. Dove Tabriz è il capoluogo della provincia dell’Azerbaijan Orientale, e Sanandaj quello della provincia curda.

La BBC, in un articolo dello scorso 6 dicembre, ha pubblicato una ricerca che dimostra come le regioni curde o di altre minoranze etniche abbiano il maggior tasso proporzionale di cittadini che hanno perso la vita durante le proteste. Nella provincia prevalentemente sunnita di “Sistan e Baluchistan”, una delle più povere del paese, è stata riportata la presenza di manifestanti donne con indosso il chador che urlavano in coro: “Sia con l’hijab che senza, avanti verso la rivoluzione!”.

Dilaniati dalla povertà, dall’assenza di prospettive future e limitati nel parlare la propria lingua liberamente, questi popoli si vedono uniti contro il gesto che ha messo fine alla vita di una ragazza innocente, contro l’unico grande nemico di tutti che, attualmente, è impersonificato nel regime di Ali Khamenei. Che questa unione sia il prologo di una rivoluzione significativa non è possibile saperlo. Né tanto meno è possibile sapere se d’ora in avanti assisteremo a una nuova sintonia tra le varie comunità minoritarie. Ciò che è certo è che avvenimenti del genere mettono sull’attenti il regime e lo portano necessariamente a rivedere, nel bene o nel male, il rapporto di potere instaurato con i popoli di lingua, etnia e/o religione diverse da quelle imposte dallo Stato.

 

Bruno Bevilacqua

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