LA COLPA DEGLI AUMENTI DEL GAS È DI PUTIN, MA CHI CI CREDE PIÙ?
Ci ripetano ossessivamente che la colpa degli aumenti del gas è della Russia sperando che noi ci crediamo. Ma noi, che abbiamo un po’ di sale nella zucca e che abbiamo ancora il cervello connesso, sappiamo bene che la guerra ricopre solo una parte marginale negli aumenti, un interessante ed esaustivo articolo di Salvatore Bianco ne spiega i meccanismi.
La narrativa che cerca di giustificare la presa di posizione dell’occidente, e nella fattispecie dell’Europa, che i sacrifici derivanti dagli aumenti del gas a causa della guerra in Ucraina dobbiamo sopportarli supinamente perché dipendono dal cattivissimo Putin continua ad inondare quotidianamente i nostri mezzi di informazione. Ma la guerra è causa marginale di questa situazione. Infatti gli aumenti sono iniziati subito dopo l’estate del 2021 quando il prezzo del gas a livello europeo è stato completamente privatizzato e di guerra ancora non si parlava.
In un interessante articolo pubblicato su lafionda.org dal titolo “Il gas naturale al casinò di Amsterdam” di Salvatore Bianco spiega nel dettaglio le cause degli aumenti rompendo la narrativa classica che assolve la finanziarizzazione dell’economia e scarica semplicemente tutte le responsabilità sul Cremlino. Di seguito l’intero articolo che invitiamo a leggere e diffondere.
«Quando l’accumulazione di capitale di un paese diventa il sottoprodotto delle attività di un casinò, è probabile che le cose vadano male. Per questo si ritiene che i casinò dovrebbero essere, nel pubblico interesse, inaccessibili e costosi. E lo stesso vale, forse, per le Borse»
J. M. Keynes
L’uomo occidentale, per mentalità bimillenaria, è da sempre portatore di un’esigenza insopprimibile di “verità”, le cui peripezie hanno solcato i secoli. Ebbene, è venuto forse il tempo di revocare in dubbio, dopo le «dure repliche della storia» (Hegel), la cieca fiducia nelle presunte leggi imperiture del mercato. Anche perché con il trionfo del neoliberismo nell’ultimo “trentennio inglorioso” è venuto innanzi un sistema finanziario sovraordinato all’economia reale – quello che Luciano Gallino chiamava “finanzcapitalismo”– che delle regole di incontro fra domanda ed offerta in senso tradizionale non sa proprio cosa farsene. E’ mosso dal solo scopo di realizzare nel minor tempo possibile il massimo degli utili per i propri azionisti. Si badi, però, che l’attuale capitalismo finanziario, oggi largamente prevalente in Occidente, lungi dall’essere un sovvertimento del modello capitalistico ne rappresenta il suo inveramento, senza più l’intralcio della merce (e con la riduzione tendenziale del trinomio D¹-M-D² a semplice binomio D¹-D²), col dominio assoluto di un’oligarchia finanziaria globale che Marx ne Il Capitale già identificava nei «bancocrati, rentiers e lupi di Borsa giubilanti».
Ciò che sta avvenendo col prezzo del gas è un caso esemplare, nei sui risvolti anche estremi, delle conseguenze dell’applicazione degli strumenti finanziari a quello che per definizione è un “oligopolio naturale”, che richiederebbe un ben altro mercato regolato. Nel contempo, tale applicazione, fornisce più di una chiave interpretativa sul come sia stato possibile che il prezzo del gas naturale, in un anno circa, sia passato da venti a trecento euro a mega wattora. Al riguardo, concentriamoci sugli effetti nel nostro Paese. Si legge sui giornali mainstream nostrani, dunque non tacciabili di simpatie bolsceviche, che le aziende energetiche per effetto di quegli aumenti di prezzo fuori controllo stanno realizzando ingenti extraprofitti: nell’ordine del 600-700% in più nel caso di ENI rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Queste stesse aziende – aggiungiamo noi – stanno facendo il diavolo a quattro per sottrarsi alla tassazione straordinaria nel frattempo introdotta, compreso il ricorso per incostituzionalità della stessa norma che la prevedeva.
Ora, la notizia non è tanto il tentativo di “renitenza al fisco”, pratica alquanto diffusa da noi, piuttosto l’incremento dei profitti, che non si sarebbe dovuto registrare se solo si fosse trattato di un semplice riallineamento dei ricavi rispetto all’aumento dei costi di approvvigionamento, quantomeno non in queste proporzioni. L’accumulazione esorbitante di questi profitti extra, dunque, di per sé fa problema e merita una “decostruzione”. La domanda da cui prendere le mosse potrebbe essere la seguente: che cosa determina la possibilità di incrementi di prezzo così esorbitanti da ridurre sul lastrico in pochissimo tempo lavoratori, famiglie, imprese e condurre alla bancarotta quel poco che resta del nostro sistema produttivo? Per rispondere alla domanda conviene recarsi in uno di quei «segreti laboratori», ancora più oscurati ormai di quelli della produzione, che corrispondono alle Borse, nel caso di specie alla TTF (Title Transfer Facility) di Amsterdam-Groningen (dove sorgeva il più grande giacimento europeo di gas naturale). Una Borsa (sic!) è stata indicata dalle autorità europee per fissare il prezzo del gas naturale al livello comunitario, valevole dunque anche per il consumatore italiano.
Ora, sullo sfondo di una guerra che si preannuncia lunga e coinvolge uno tra i maggiori fornitore di gas al mondo, era facilmente intuibile che questo luogo potesse divenire un avamposto del trading (scambio dei titoli azionari) speculativo e soprattutto dell’uso perverso dei derivati. Non averci posto rimedio e, soprattutto, non avere pensato di farlo, conferma che l’Europa ad oggi è un mero aggregato economico. Ma ritorniamo ad Amsterdam. Già il modo in cui viene fissato il prezzo iniziale di contrattazione è parecchio indicativo delle aspettative borsistiche. Questo infatti avviene attraverso il “mercato spot”. Nelle grammatiche finanziarie vuol dire contratti di acquisto e vendita di titoli normalmente a due o tre giorni, come se non ci fosse un domani, per esercitare il massimo di pressione sui fornitori: lo scopo non è l’effettiva consegna del gas ma solo porre una “base d’asta” già alterata. Come si accennava, subito dopo entra in gioco l’artiglieria pesante dei derivati, nello specifico i contratti future. Relative a consegne procrastinate nel tempo, i future consentono una serie impressionante di negoziazioni, senza un effettivo scambio della materia prima. Questo ciclo di scommesse da parte dei trader della finanza hanno lo scopo di creare un regime di scarsità artificiale del gas naturale, che è poi la situazione fuori controllo che stiamo vivendo. Una tendenza al rialzo, è bene ricordarlo, iniziata già da prima dell’Ucraina e che ovviamente la guerra ha esasperato.
Come per ogni film horror che si rispetti non poteva mancare il colpo di scena finale. Si tratta della “quota marginale” massima di cui tutti gli acquirenti in misura differenziata beneficeranno. Vediamone il dettaglio. I prezzi di vendita del gas subiscono un graduale aumento via via che si soddisfano gli acquirenti e si riduce la “merce” – e qui siamo ancora nel fisiologico. La vera pietra di scandalo è rappresentata dal fatto che il prezzo dell’ultima quota venduta diventa il prezzo di vendita di tutto il gas, facendo lievitare a dismisura i margini di guadagno dei futuri rivenditori. Giova ricordare che i ruoli di venditore e compratore sono perlopiù interscambiabili, come conviene all’aleatorietà del posto. Per alzare il più possibile l’asticella del prezzo della “quota marginale”, di cui gli acquirenti beneficeranno, rientrano ovviamente in gioco i contratti spot, a brevissima scadenza, che hanno il compito di gonfiare artificialmente la domanda, producendo il massimo di pressione sui fornitori. Tutto ciò consente grandi utili agli investitori costituiti dai fondi di investimento internazionali (Blackrock, Vanguard, State Street ecc.), ma una ricaduta micidiale nella distribuzione e vendita al dettaglio del bene, con tariffe inaccessibili per lavoratori, famiglie ed imprese. Fra l’altro in una cornice già parecchio compromessa dal biennio pandemico. Negli ultimi due anni, dati Oxfam, tredici persone sono divenute miliardarie, mentre i poveri sono aumentati di un milione e trecentomila unità. Oggi contiamo in Italia oltre 5 milioni di poveri assoluti e 7 milioni di poveri relativi. Non è da escludere che in autunno partano poi le “speculazioni occupazionali”, ovvero si utilizzerà l’emergenza del gas per riorganizzare le imprese su di un fabbisogno occupazionale ridotto. Il sindacato in proposito ha già suonato l’allarme.
Prima della reazionaria svolta neoliberista, il prezzo era appannaggio degli Stati e fissato mediante accordi bilaterali secondo il meccanismo take or pay(se non prendi paghi lo stesso) a lungo termine, della durata di venti o addirittura trent’anni. Questo presupposto contrattuale garantiva certezza negli approvvigionamenti e relativa stabilità dei prezzi, salvo dover onorare l’impegno di pagamento anche nel caso di interruzione anticipata unilaterale della fornitura. Era un mercato regolato consono alla natura particolare del bene. Poi sono arrivate le privatizzazione degli anni ’90 che hanno coinvolto anche i nostri campioni nazionali dell’energia, ENI ed ENEL. Da quel momento si pensa di meno ad approvvigionare a prezzi contenuti e più a garantire gli utili agli azionisti coincidenti sempre di più coi fondi di investimento. Il culmine si è raggiunto nell’estate del 2021, con la piena “liberalizzazione” del mercato europeo del gas e l’individuazione di una Borsa per prezzarlo. Da quel momento si sono spalancate le porte dell’inferno della finanza speculativa e Putin poteva incidere ancora poco.
Ebbene, delle autorità europee avvedute e responsabili prenderebbero semplicemente atto della situazione, facendo marcia in dietro a distanza di poco più di un anno, per modificare strutturalmente il meccanismo di formazione del prezzo del gas. Ma forse l’obiettivo, mai dichiarato, era esattamente quello di fornire una ulteriore occasione di guadagno al blocco oligarchico dominante e non può consentire retromarce di sorta. Allora accade anche che il dibattito pubblico, alimentato da un circo mediatico di completamento, si posizioni a valle degli effetti; per ricercare unicamente adattamenti “resilienti” alla nuova situazione venutasi a creare anziché proporre di risolvere alla radice il problema, magari col ripristino di una qualche forma di «pianificazione pubblica» (E. Brancaccio).
E’ uno spaccato, quello sommariamente descritto, che giustificherebbe un intervento fiscale molto più energico di quel modesto 25% previsto sugli extraprofitti delle aziende energetiche e non solo (art.37 del dl 21/2022). Peccato che dei rapporti di forza così’ squilibrati, a favore della finanza, rischiano di vanificare sul nascere qualsivoglia sia pur buona intenzione. Il solo miliardo di acconto incamerato dall’erario a giugno, a fronte dei circa undici previsti, è laconicamente lì a dimostrarlo. Così come la minacciata impugnazione della norma per incostituzionalità. Anche redistribuire l’extraprofitto pare sia in Italia un tabù. E’ quello che propriamente una politica rifondata, coraggiosa e responsabile, dovrebbe essere in grado di abbattere.