L’assalto al campidoglio non e’ un regalo a putin
L’assalto al Campidoglio di Washington e le perduranti tensioni nella politica interna degli Stati Uniti non costituiscono, come affermato da più di un esponente politico e da qualche osservatore occidentale, “un regalo a Putin e ai suoi presunti piani per destabilizzare l’Occidente”. Piuttosto, “al Cremlino le difficoltà che gli USA stanno attraversando generano preoccupazione, anche in relazione al possibile inasprimento dell’atteggiamento americano in politica estera”. Lo scrive per la testata “Russia Today” Paul Robinson, docente all’Università di Ottawa, in Canada, ed esperto di storia sovietica e russa.
Prendendo in considerazione le reazioni espresse da diversi esponenti politici – anche se da Mosca, come è noto, non sono giunte prese di posizione ufficiali ai fatti del 6 gennaio scorso -, Robinson osserva come sia scorretta la prospettiva secondo la quale le violenze e le tensioni di Washington, anche in relazione alla delicata fase istituzionale che il Paese sta attraversando in questi giorni che precedono l’insediamento alla Casa Bianca del presidente eletto Joe Biden, possano agevolare, nel medio e lungo periodo, i ventilati progetti del Cremlino di indebolire il fronte occidentale minacciandone la stabilità. Facendo proprio il punto di vista di un altro acuto analista, Fyodor Lukyanov, direttore della rivista “Russia in Global Affairs” che pubblica regolarmente articoli di alti funzionari del Cremlino come il ministro degli Esteri Sergej Lavrov, Robinson rileva come “l’identità americana sia strettamente legata all’idea di uno status del Paese eccezionale sia sotto il profilo della solidità democratica che della forza delle istituzioni. Quando qualcosa sfida questo senso di eccezionalità, crea uno shock che porta i leader americani a cercare capri espiatori nazionali e stranieri da incolpare per i traumi della nazione”.
“Non è difficile prevedere chi sarà il nemico numero uno”, aveva asserito Lukyanov. Ovviamente sarà la Russia. “L’inevitabile conflitto americano per rivendicare il suo eccezionalismo”, aveva inoltre aggiunto, condurrà inevitabilmente a “tentativi di dividere il mondo lungo le linee della vecchia democrazia contro l’autocrazia”, e “non possiamo escludere una qualche aggressiva promozione della democrazia”. Da queste premesse, tutt’altro che infondate, Robinson trae ragione per ribadire che “il caos politico negli Stati Uniti, o altrove, non è assolutamente nell’interesse della Russia. Questo è ben compreso nei circoli di politica estera a Mosca. Se si cercasse una sola parola per riassumere l’ideologia prevalente in quel Paese, una buona scelta sarebbe “stabilità”. Invece della “vita, libertà e ricerca della felicità” americana, la Russia moderna ha optato per qualcosa di più vicino al concetto di “pace, ordine e buon governo” dell’Impero britannico”.
Conclude, pertanto, il docente di Ottawa: “La questione riguarda pure la politica estera. Vladimir Putin si dipinge regolarmente come difensore dell’ordine internazionale, e le sue lamentele sugli Stati Uniti spesso sono incentrate sulle accuse secondo cui gli USA stanno causando instabilità internazionale causando guerre, sostenendo ribellioni e incitando a cambiamenti di regime e rivoluzioni “colorate”. L’idea che la Russia stia cercando di destabilizzare il mondo, quindi, travisa gli atteggiamenti russi. La prospettiva russa è piuttosto conservatrice: valorizza l’ordine. Per questo motivo, è improbabile che Mosca consideri le violenze a Washington come una “vittoria” o come un “regalo” di Donald Trump. Più probabilmente, si preoccuperà delle ricadute. Perché, più gli americani si combattono l’un l’altro, più è probabile che la Russia rimanga coinvolta nel fuoco incrociato”.
Alessandro Borelli