LA STRATEGIA STATUNITENSE PER CONTENERE L’ESPANSIONE DELLA REPUBBLICA CINESE
La rinnovata attenzione al ruolo delle organizzazioni multilaterali e alla pedagogia domestica arricchirà il già poliedrico contenimento degli Stati Uniti contro la Repubblica Popolare. Ciò emerge dal documento intitolato “Elementi della sfida cinese”, redatto dal dipartimento di Stato Usa pochi giorni prima che l’amministrazione guidata da Donald Trump accettasse la transizione con quella del suo successore Joe Biden.
La sincronia temporale non è casuale. Gli apparati americani si preparano a interagire con i futuri vertici, alcuni dei quali sono stati da poco nominati da Biden: Antony Blinken, come segretario di Stato; Jake Sullivan, come consigliere della sicurezza nazionale; Avril Haines dirigerà l’intelligence nazionale. Come sottolineato lo scorso luglio da Limes, Sullivan ha familiarità con lo Stato profondo americano e la necessità strategica di contenere la Cina. Lo stesso può dirsi per Blinken, affatto tenero nei confronti di Pechino, nonostante i media cinesi ricordino positivamente il suo viaggio nella Repubblica Popolare nel 2015. Viaggio durante il quale peraltro sarebbe stata scattata la foto profilo del suo account Twitter.
Tali elementi sottolineano l’importanza del documento in oggetto, che non solo analizza i punti di forza e debolezza della Cina. Soprattutto, elenca in maniera sintetica le soluzioni per affrontarla. E conferma che il cambio di presidenza non arresterà la rotta di collisione tra le due potenze.
Il testo preserva diversi elementi comuni ai discorsi pronunciati recentemente dal segretario di Stato uscente Mike Pompeo e al documento divulgato dalla Casa Bianca lo scorso maggio con il titolo “Approccio strategico alla Repubblica Popolare Cinese”. Washington accusa esplicitamente il Partito comunista di voler rovesciare l’attuale ordine internazionale plasmato dagli Usa e dagli altri paesi occidentali. Ragion per cui, secondo il documento, è necessario che la superpotenza si erga a difesa della libertà e dello status quo. L’obiettivo è mettere in discussione la legittimità del Partito agli occhi della popolazione cinese e dei paesi stranieri.
Per il dipartimento di Stato la “sensibilità” della Repubblica Popolare è infatti “autoritaria, collettivista e imperiale”, frutto dell’abbinamento delle teorie marxiste e leniniste con il nazionalismo di marchio cinese. Senza sorprese, i media fedeli a Pechino hanno commentato negativamente l’approccio del dipartimento di Stato. La struttura governativa identifica la crescita economica quale perno del prorompente sviluppo tecnologico e militare cinese, nonché lo strumento con cui Pechino ha rafforzato la sua influenza all’estero. L’esempio più lampante di questo processo è la promozione della Belt and Road Initiative (Bri, nuove vie della seta) progetto geopolitico imperniato su investimenti infrastrutturali all’estero.
Il documento accenna anche alle note vulnerabilità della Repubblica Popolare: il divario di ricchezza tra costa ed entroterra e la potenziale richiesta di maggiori diritti e pretese da parte della fiorente classe media cinese. Entrambi gli elementi rappresentano una minaccia alla stabilità del paese e quindi alla sovranità del Partito comunista.
La parte più rilevante del testo riguarda le dieci proposte del dipartimento di Stato su come affrontare la Repubblica Popolare. In cima alla lista c’è la “protezione della libertà” in patria, tramite la preservazione del governo costituzionale, la promozione della prosperità e di una società civile robusta. Washington considera infatti la “condotta” cinese una sfida ai valori e alle sovrastrutture americane.
La seconda proposta è mantenere il primato militare. Le Forze armate a stelle e strisce devono restare le più potenti, agili e tecnologicamente avanzate. Di qui la necessità di ostacolare i progressi dell’Esercito popolare di liberazione (Epl), che ancora difetta in termini di esperienza di combattimento e di qualità tecnologica. Tale tattica al momento prevede sanzioni nei confronti delle aziende del Drago che contribuiscono al potenziamento dell’Epl e operazioni navali nei contesi Mari Cinesi, che Pechino rivendica quasi nella loro interezza.
Il terzo e quarto obiettivo sono legati tra loro: “fortificare l’ordine internazionale libero, aperto e basato sulle regole” di cui gli Usa hanno guidato la costruzione; “rivalutare il sistema di alleanze e la panoplia di organizzazioni internazionali”.
Si tratta di una delle argomentazioni più importanti del documento. Durante la presidenza Trump, gli Usa hanno criticato diversi enti multilaterali. Prima si sono ritirati dall’accordo di libero scambio denominato Trans Pacific Partnership, favorendo l’allestimento della Regional Comprehensive Economic Partnership fortemente voluta dalla Cina e dai paesi del Sud-Est asiatico. Poi hanno abbandonato il trattato sulle forze nucleari di gittata intermedia firmato con la Russia, mossa che permetterebbe di posizionare vettori balistici e nucleari a pochi chilometri dalle coste cinesi. Infine, durante la prima ondata di epidemia di coronavirus, Washington ha lasciato l’Organizzazione mondiale della sanità accusandola di essere eccessivamente sinocentrica. Lo Stato profondo americano riconosce che questo approccio ha favorito l’aumento del soft power cinese nei consessi internazionali. I primi tentativi di interazione tra Biden e i paesi europei potrebbe essere la ragione per cui Pechino ha incoraggiato questi ultimi a perseguire una “strategia autonoma”.
Tali riflessioni conducono al quinto proposito, cioè il “rafforzamento del sistema di alleanze tramite un’efficace divisione delle responsabilità” e la formazione di “gruppi e coalizioni” per affrontare “specifiche minacce alla libertà”. L’esempio più lampante di tale intento è il rafforzamento in corso del dialogo quadrilaterale di sicurezza (Quad), composto da Usa, Giappone, Australia e India. Proprio in questi giorni il Quad conduce esercitazioni militari congiunte in chiave anti-cinese. Non è escluso che in futuro anche la Nato contribuisca a tale tattica. Washington ha chiesto agli alleati europei (Italia inclusa) di solcare il conteso Mar Cinese Meridionale.
Il documento poi propone di promuovere gli interessi americani con la Repubblica Popolare, contenerla se serve e sostenere coloro che lì “perseguono la libertà”. Insomma, gli Usa continueranno a usare i dossier Hong Kong, Tibet e Xinjiang per destabilizzare Pechino, che notoriamente non ammette interferenze straniere in questioni di natura domestica.
Nella parte finale del testo, il dipartimento di Stato pone l’accento su tre compiti: infondere nei cittadini americani maggiore conoscenza delle implicazioni della sfida cinese; riformare il sistema di istruzione scolastica affinché gli studenti si “facciano carico” del fatto di vivere in una società libera e democratica; addestrare una nuova generazione di funzionari pubblici alla conoscenza non solo della lingua e della cultura cinese, ma anche degli altri amici e rivali.
Washington ritiene prioritario rinsaldare nelle generazioni future i valori su cui si fonda la società americana in antitesi a quelli cinesi. Per poi, come recita l’ultimo punto, “difendere i principi di libertà” pubblicamente, anche tramite iniziative diplomatiche.
Insomma, gli Usa potrebbero prestare maggiore attenzione alla formazione pedagogica, strumento che tradizionalmente le grandi potenze usano per consolidare l’identità nazionale e alimentare le ambizioni future. Pechino è impegnata nel medesimo disegno: instillare nei giovani cinesi la memoria dei fasti dell’éra imperiale, delle invasioni straniere e infine del “risorgimento” della Repubblica Popolare sotto la guida del Partito comunista.
In tale ambito, la specularità tattica di Washington e Pechino certifica l’essenzialità del soft power nel duello sino-statunitense.
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