PERU’ QUO VADIS?
di Marco Consolo
Sono giorni convulsi nel Paese andino che in una settimana ha visto una forte mobilitazione di piazza in tutto il Paese, repressa con un tragico saldo di due giovani morti e decine di feriti. In una settimana si sono succeduti ben 3 Presidenti della Repubblica.
Proviamo a mettere in ordine i fatti.
Il 9 novembre scorso, il presidente Martín Vizcarra è stato fatto dimettere dal parlamento per “incapacità morale permanente” attraverso una mozione di censura, nota come “vacancia presidencial”, con l’accusa di aver accettato tangenti. Sono bastate solo 5 ore di dibattito per realizzare una sfacciata e grossolana torsione della Costituzione da parte di un parlamento in cui, come ha ricordato lo stesso Vizcarra, ben 68 deputati su un totale di 130 sono sotto processo, molti per fatti di corruzione.
Vizcarra, membro del cosiddetto “Gruppo di Lima” e sostenitore del golpista venezuelano Juan Guaidó, si unisce così alla lunga lista di presidenti peruani dimessi/si per corruzione negli ultimi anni.
Al di là del giudizio sulla gestione di Vizcarra, siamo di fronte all’ennesimo episodio della sequenza dei “colpi di Stato istituzionali” che hanno funestato il continente negli ultimi anni.
In mezzo alle proteste, il 10 novembre, la presidenza del Paese è stata assunta dal capo del Parlamento, Manuel Merino, di Accion Popular, che aveva dichiarato di opporsi all’anticipo delle elezioni previste per aprile 2021. Ma anche Merino, insensible alle richieste popolari, è durato poco.
Le mobilitazioni di piazza contro il “golpe istituzionale” (non a favore di Vizcarra), contro la presidenza di Merino, hanno avuto al centro la richiesta di convocare elezioni e l’inizio di un processo costituente che metta fine alla Costituzione del golpista Alberto Fujimori, ancora in vigore nel Paese. Le proteste si sono protratte per diversi giorni e sono state represse brutalmente causando la morte di due giovani e decine di feriti. In questi giorni di proteste, le forze dell’ordine sono anche state protagoniste di detenzioni arbitrarie, attacchi a giornalisti nazionali e stranieri, mentre ancora non si conosce l’ubicazione di diversi detenuti.
Il 15 novembre, la forza delle manifestazioni di piazza, insieme alla pressione parlamentare di gruppi di interesse, hanno costretto Merino a dimettersi irrevocabilmente dalla carica di Presidente, facendo naufragare il suo “governo di transizione”.
Il 16 novembre viene eletto, Francisco Rafael Sagasti Hochhausler, un moderato “centrista” appena nominato dal Parlamento. Sagasti è il terzo Presidente in una settimana ed il quarto in quattro anni. Come si ricorderà, nel 1996, Sagasti era stata una delle persone trattenuta come ostaggio dal Movimento Rivoluzionario Túpac Amaru (MRTA) durante l’occupazione armata dell’ambasciata giapponese da parte dell’ex movimento guerrigliero, che lo aveva rilasciato pochi giorni dopo.
Insieme alla nomina di Sagasti, si sono rinnovate le cariche del Parlamento e, mentre scriviamo, è in corso una mobilitazione convocata dalle centrali sindacali, la Asamblea Nacional de Los Pueblos ed altre organizzazioni di base.
Fin qui i fatti e le manovre acrobatiche del corrotto ceto politico, che ha portato alla destituzione per via parlamentare del presidente Vizcarra, con la strategia dei cosiddetti Golpe istituzionali.
Le radici della crisi politica
Dopo i processi di indipendenza dalla madre-Patria, in America Latina gli Stati repubblicani evidenziano le caratteristiche di aperto dominio di classe ed una struttura di controllo che li differenzia dallo Stato liberale con i suoi diversi gradi di “compromesso sociale” tra le classi.
Inoltre, è utile ricordare che lo “Stato nazione” peruviano in realtà è uno “Stato non nazionale”, composto da almeno tre Perù: quello della selva amazzonica, quello delle Ande e quello della costa, con caratteristiche profondamente diverse tra loro, sia in quanto a popolazione, che a struttura socio-economica.
Le classi dominanti, principalmente della costa, hanno continuato a privatizzare e a svendere il Paese, con la logica da “accumulazione originaria” con modalità neo-coloniale verso le aree interne, sottoposte ad un brutale estrattivismo minerario e petrolifero e in mano alle multinazionali (più del 70% dell’Amazzonia peruviana è stata ceduta alle compagnie petrolifere). Si occupano “manu militari” le zone dove vivono i popoli originari sottoponendoli alle più moderne tecniche di saccheggio.
Ma al di là della sua dimensione storica, la crisi politica di questi giorni si trascina da almeno 30 anni. Possiamo infatti datare al 1992 l’inizio dell’ultimo ciclo di crisi con l’autogolpe di Alberto Fujimori, “el chino”, che iniziò un decennio caratterizzato dagli abusi di potere, la corruzione, la continuazione del terrorismo di Stato con il suo braccio destro Vladimiro Montesinos, a capo dei servizi segreti.
Un decennio con una pesante eredità di una carta costituzionale varata sotto dittatura, ancora vigente, redatta per garantire il saccheggio di risorse e diritti, e quindi intrinsecamente a garanzia di regimi corrotti.
E dentro la crisi capitalista mondiale, acuita dalla pandemia, la crisi peruana in corso è moltiplicata da una successione di cicli sempre più degradanti e degradati.
Dopo Alberto Fujimori (dimessosi con un fax dal Giappone dove era fuggito prima dell’arresto), tutti i Presidenti posteriori hanno avuto guai con la timida giustizia peruana: Alejandro Toledo (scappato negli Stati Uniti), Alan Garcia (suicidatosi mentre lo stavano finalmente arrestando per mazzette), Ollanta Humala (con multipli processi aperti), Pedro Pablo Kuczynski (dimessosi anticipatamente, a sua volta accusato di corruzione ed attualmente in attesa di essere processato), fino a Martin Vizcarra (anch’egli con molti processi aperti).
A marzo 2018, Vizcarra subentra a Kuczynski con la bandiera della lotta alla corruzione. Da subito legisla a favore del capitale. Con la pandemia, organizza una quarantena in base alle richieste della Confindustria locale e delle grandi imprese a cui destina il 70 % degli aiuti, autorizza sospensioni senza stipendio dei lavoratori, a cui taglia diritti a man bassa, mentre crescono in maniera esponenziale disoccupazione e decessi da Covid.
E per assicurare la “pace sociale”, guai a chi si ribella. Lo scorso aprile, colpito dall’immortale virus dell’autoritarismo, il governo Vizcarra aveva garantito impunità alle forze dell’ordine per l’uso “in servizio” delle armi contro la popolazione, con il paese militarizzato per controllare la quarantena e le garanzie costituzionali sospese a causa dello stato d’emergenza.
Si acuiscono così le caratteristiche di uno Stato politicamente precario, socialmente divaricato e con interessi politico-economici frammentati, dove il ceto politico è profondamente diviso a causa di interessi privati, locali e settoriali, e non certo in base ai diversi progetti di Paese e di società.
In questa situazione di instabilità cronica, è comprensibile la crescente indignazione sociale, ed il prevalere della cosiddetta ”anti-politica”. Anche qui, più che contro la politica con la P maiuscola, in realtà la rabbia crescente è contro la gran parte dei partiti esistenti. Quella peruviana, infatti, è una società con una distanza abissale con “i palazzi” della politica e le loro pratiche. Molti partiti sono veri e propri “surrogati” che rispondono alla volontà dei loro proprietari, gestiti come feudi sulla base di aspirazioni private a breve termine, accentuando la percezione pubblica negativa della politica e dei partiti politici.
E’ una profonda “crisi dello Stato”, in cui “quelli di sopra”, i “poteri forti”, non riescono a governare e “quelli di sotto” sanno cosa non vogliono (il neoliberismo mafioso), ma sono ancora dispersi e con poche alternative praticabili, almeno fino ad oggi.
Il continente in piazza
In questo scenario, sia a Lima che in molte città del resto del Paese, si sono organizzate spontaneamente grandi mobilitazioni contro il colpo di Stato “istituzionale” e rivendicando i diritti democratici. Spicca la presenza dei giovani e del ceto medio, insofferenti di fronte alla crisi e all’incertezza sociale crescente, accentuata dall’ultimo colpo di Stato che ha contribuito ad aumentare la paura della tragica pandemia del Covid, che in Perù ha dimensioni raccapriccianti. Le giovani generazioni sono scese in piazza mosse dall’indignazione contro la corruzione dilagante, gli abusi, la repressione, l’impunità ed il sequestro dello Stato da parte di un ceto politico-imprenditoriale che continua a farla franca. Una mobilitazione che rivendica una democrazia con un protagonismo popolare, alternativa a quella fatta solo di processi elettorali ed un litigioso ceto politico.
Tra le richieste delle piazza, c’è quella di un governo d’emergenza transitorio, che possa farsi interprete delle parola d’ordine delle lotte sociali per un’Assemblea Costituente e una nuova Costituzione.
Più in generale, in America Latina sono nuovamente protagonisti i popoli originari, le donne e i movimenti sociali. L’elemento comune è la lotta contro i tragici effetti delle politiche neoliberiste applicate dai governi conservatori di ritorno in molti dei Paesi del sub-continente, come risultato della controffensiva di Washington nel suo “cortile di casa”.
Da un lato, i movimenti rivendicano una prassi politica di mobilitazione al di fuori e contro molte organizzazioni “tradizionali” e i partiti “surrogati”. Questi ultimi, se non vogliono venire spazzati via, devono ripensare profondamente al loro ruolo di “corpi intermedi” nella società.
Dall’altro, alcune delle loro rivendicazioni affrontano tematiche strutturali, seppure ancora frammentate: a partire dalla concentrazione della proprietà della terra, dalle insopportabili diseguaglianze sociali, dalla debolezza o inesistenza di uno Stato Sociale, dalla mancanza di diritti, mettendo in discussione il modello produttivo e socio-economico.
Il vento continentale soffia anche sul Perù. Il cambio di governo in Argentina, la vittoria nel referendum in Cile e delle elezioni in Bolivia, insieme alle mobilitazioni in Colombia, stanno producendo un effetto dominò. Il Perù inizia a svegliarsi. Ma ad oggi, non si riesce a vedere una soluzione pacifica alla crisi politica, con nuove elezioni e l’avvio di un processo costituente che rediga una nuova Magna Carta a garanzia dei diritti sociali ed economici della maggioranza ancora esclusa.
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