INSURREZIONI ANDINE: CAPITOLO PERù
di Rodrigo Andrea Rivas
“Fosforo e fosforo nel buio,
lacrima e lacrima nella polvere”.
César Vallejo, “Trilce” “Poema LVI”, 1922
“Pietra sulla pietra, e l’uomo dov’era?
Aria nell’aria, e l’uomo dov’era?
Tempo nel tempo, e l’uomo dov’era?”
Pablo Neruda, “Altezze di Machu Picchu”, “Canto generale”, 1950
Anzitutto, vi propongo in ordine non cronologico alcune citazioni che, penso, rendano conto di quanto avviene ora in Perù. Fin da Erodoto sappiamo che la cronaca va correttamente corredata dai fatti e inquadrata nel contesto degli avvenimenti, in assenza di tale operazione la semplice notizia può smarrire completamente il suo senso. Queste citazioni rispondono essenzialmente alla cronaca. Per il resto mi limito a poche osservazioni in conclusione.
“La gente, i giovani, sono scesi per strada mossi dall’indignazione. Questa è la sola interpretazione corretta. La mobilitazione, condotta dalla cittadinanza, ci ricorda che la democrazia non è fatta soltanto da processi elettorali, partiti e leader politici. Che la democrazia significa essenzialmente protagonismo popolare e cittadino. Questo è ciò che abbiamo iniziato a vedere nel Perù e ci riempie di speranza. Saremo parte di questa onda democratica” [1].
“Dei 2.325 candidati alle elezioni de parlamento del 26 gennaio 2020, 1.368 sono stati condannati in prima istanza e altri 218 nell’ultimo grado di appello. Tra i precandidati, 4.729 avevano falsificato i loro dati per riuscire a presentarsi. Circa il 50% dei candidati rimasti ha contratti in corso con lo Stato. Tramite l’elezione intende consolidarli prendendosi inoltre uno stipendio smisurato per il paese. Vizcarra ha decine di processi, il suo ex primo ministro, César Villanueva, è in prigione preventiva. Il suicidato Alan García, il caso più emblematico insieme all’altro ex-presidente Alberto Fujimori, ha ricevuto ingenti quantità di denaro dal reparto bustarelle della Odebrecht. Ad altri ex–presidenti, Alejandro Toledo (negli Stati Uniti), Pedro Pablo Kuczynski ed Ollanta Humala, li attendono le patrie galere. La cattura dello Stato da parte dei corrotti è in corso. Gli scontri avvengono attorno al potere giudiziario e al Congresso.” [2]
“In mezzo alla grave crisi dovuta al coronavirus è sbarcato il vecchio virus della mano dura e dell’autoritarismo. Pochi giorni fa, con il paese militarizzato per controllare la quarantena generale e le garanzie costituzionali sospese dallo stato d’emergenza, è stata promulgata una legge del grilletto facile. La norma ha carattere permanente, non si limita all’attuale stato d’emergenza e libera da ogni responsabilità i membri delle forze di sicurezza che “nello svolgimento delle loro funzioni” impieghino le armi contro la popolazione. Gli uomini in uniforme non potranno essere arrestati se uccidono o feriscono qualche persona, e non è richiesta la proporzionalità della loro risposta. E cioè, sono liberi di sparare contro una persona disarmata. La legge è stata promulgata dal nuovo Congresso unicamerale entrato in carica pochi giorni fa. Senza dubbio, si tratta di un cattivo e preoccupante debutto.” [3]
“Malgrado la sua popolarità (65%), il presidente torna a scontrarsi col Congresso, accusando molti dei parlamentari di corruzione perché rifiutano di approvare una legge che elimina l’immunità dei parlamentari e permette che possano essere sottoposti a giudizio […] Ma, mentre parla di lotta, sacrosanta, alla corruzione, Vizcarra riempie le tasche del grande capitale. Il suo piano “Reactiva Perú” destina il 71% dei fondi dedicati a far fronte alla crisi alle grandi imprese, incluso ad alcune vincolate al Lavajato (le bustarelle della brasiliana Odebrecht, n.d.r.), installa «sospensioni perfette» (senza stipendio ai lavoratori), taglia senza ritegno i diritti dei lavoratori e disegna una quarantena a misura dell’imprenditoria. Nel loro insieme disarmonico queste misure hanno buttato nella disoccupazione milioni di lavoratori.” [4]
“Il golpe è sempre un golpe. La sottomissione di Martín Vizcarra alla decisione del Congresso non annulla la gravità dell’atto attraverso il quale un gruppo di cospiratori si è impossessato del governo mettendo fine a 20 anni di democrazia, spezzando la Costituzione e mettendo ancora una volta il paese lungo una strada dominata dall’avidità e dalla corruzione. Il divieto costituzionale di accusare il Presidente durante l’esercizio del suo mandato per ragioni diverse di quelle elencate nell’articolo 117, è tassativo. È stato violentato grossolanamente servendosi delle dichiarazioni di aspiranti all’incarico, di ruffiani e portaborse, di foto truccate e di altri espedienti simili. Il ruolo del presidente del Congresso in questa proditoria operazione copre di vergogna lui ed il suo partito. Manuel Merino sarà un presidente indegno che si è aggrappato al potere con metodi riprovevoli.” [5]
“Dopo appena 5 ore di dibattito, il Congresso del Perù ha destituito il presidente Martín Vizcarra, definendolo «colpevole d’incapacità morale» in base a rapporti di personaggi di dubbia moralità secondo i quali avrebbe percepito delle bustarelle da parte di due aziende che hanno vinto commesse per realizzare opere pubbliche quando era governatore di Moquegua, sette anni fa. La caduta del mandatario è arrivata col secondo tentativo di destituzione messo in atto in meno di due mesi: il 18 settembre, un’altra iniziativa per destituirlo, nata da un’altra segnalazione di corruzione, aveva ottenuto solo 32 voti (sugli 87 necessari), ma il nuovo scandalo ha fatto crescere il blocco destituente a 105 legislatori. Vizcarra, che non dispone di un partito né di un gruppo parlamentare proprio, ha mantenuto un rapporto teso col Legislativo (Parlamento) da quando è arrivato al potere nel 2018 in sostituzione di Pedro Pablo Kuczynski, neoliberista duro dimessosi dopo essere stato coinvolto in un caso di corruzione (provata dai tribunali) […]. Nel settembre 2019 l’appena deposto mandatario fece uso di una facoltà legale per sciogliere il Congresso, allora dominato dalle diverse frazioni fujimoriste, eredi politici del criminale ex presidente Alberto Fujimori, riunite attorno a sua figlia Keiko. Il parlamento sorto dalle elezioni del 26 gennaio ha ridotto il fujimorismo ad un ruolo puramente testimoniale, ma non ha messo fine all’instabilità cronica che frusta il Perù da due decenni, aprendo la strada ad una miriade di fazioni caratterizzate dall’opportunismo. Pur in attesa che ulteriori indagini confermino o smentiscano le accuse contro Vizcarra, preoccupa assistere nuovamente ad una contraffazione del voto popolare tramite manovre del Legislativo, come già avvenuto contro Fernando Lugo in Paraguay, nel 2012, e contro Dilma Rousseff in Brasil, nel 2016. Gli avvenimenti peruviani sono una nuova dimostrazione del disprezzo delle classi politiche nei confronti della volontà popolare. Primo, poiché le inchieste segnalavano, e le mobilitazioni popolari hanno ratificato, che l’Esecutivo disponeva di un appoggio molto superiore a quello di cui gode il Legislativo. Secondo, poiché il governo entrante ha risposto con un feroce dispiegamento repressivo delle proteste contro ciò che per molti peruviani è un’usurpazione. Terzo, perché il paese andino è ad appena sei mesi delle sue prossime elezioni presidenziali, e in questo contesto la rimozione del presidente uscente è inevitabilmente interpretato come un tentativo d’incidere nelle prossime elezioni. Infine, perché non si può esimere dal notare che, lontano anni luce da una restaurazione della legalità, l’ex leader del Congresso, Manuel Merino, ha nominato come ministri personaggi impresentabili come Ántero Flores-Aráoz, già ministro della difesa durante il secondo mandato di Alan García” [N.d.r.: Flores-Aráoz è stato l’esecutore del massacro di Bagua, nel giugno 2009, considerata la strage più sanguinosa della recente storia peruviana. Dopo il massacro, i decreti all’origine della protesta delle popolazioni originarie furono revocati. Teoricamente, infatti, oggi il Perù è dotato di una legge che garantisce ai popoli indigeni il diritto al consenso libero, previo e informato per qualsiasi progetto che coinvolga loro e le loro terre. Nella pratica, più del 70% dell’Amazzonia peruviana è stata ceduta alle compagnie petrolifere. [6]
“L’accusa contro il presidente Vizcarra, ovvero che avrebbe ricevuto bustarelle del cosiddetto Club de la Construcción – una rete mafiosa per vincere gare d’appalto – quando era governatore di Moquegua (2011-14), non è stata provata da nessun giudice o pubblico ministero, e poggia soltanto sulle dichiarazioni di alcuni aspiranti a diventare collaboratori di giustizia, gente che per salvare la pelle potrebbe dichiarare qualsiasi cosa. Ma il versante più grottesco di questa situazione è che dei 109 parlamentari (su 130) che hanno votato per destituire il presidente per ben 68 -come ha ricordato lo stesso Vizcarra davanti al Congresso nella sua ultima deposizione- sono in corso indagini giudiziarie e denunce per diversi reati, ma nessuno ha lasciato l’incarico o rinunciato all’immunità. In verità, questo Congresso ha più le sembianze di un refugium peccatorum che di un parlamento.” [7]
“Nel quinto giorno di proteste contro la destituzione del presidente Martín Vizcarra, un gruppo di giovani che manifestava pacificamente è stato violentemente represso dalla polizia quando ha tentato incamminarsi verso la residenza del nuovo mandatario Manuel Merino, nelle vicinanze di quella del primo ministro, Ántero Flores Aráoz. La sera precedente 27 giovani sono stati feriti in scontri con le forze dell’ordine durante le proteste contro il governo Merino, alcuni con proiettili di gomma ed altri con armi da fuoco… La coordinatrice nazionale per i diritti umani ha informato che le proteste hanno lasciato 11 feriti tra cui alcuni giornalisti, che hanno subito colpi di proiettili e contusioni. L’agenzia di notizie Afp ha dichiarato che uno dei suoi reporter era stato colpito da pallettoni”. [8]
“Il nuovo capo del Congresso del Perù, Luis Valdez, ha chiesto ieri sera immediate dimissioni al nuovo presidente Manuel Merino, in seguito alle violente proteste contro il nuovo «governo di transizione», che nella sua sesta giornata ha lasciato due morti e diversi feriti. «Davanti a questo fatto da sé insostenibile (la morte di manifestanti) ho convocato per la mattinata di oggi domenica 15 novembre la Giunta dei capigruppo per valutare non solo la rinuncia di Merino, ma anche la forma costituzionale per porre fine a questa situazione immediatamente». Valdez, intervistato dalla TV locale «Canal N» ha detto che la presidenza del Congresso farà un passo indietro e non prenderà parte alla elezione del nuovo governo ad interim… Alberto Huerta, capo dell’Ufficio di difesa dei cittadini, ha informato che un giovane di 25 anni, ancora non identificato, è arrivato morto all’Ospedale Guillermo Almenara, con ferite nella faccia e nel collo, mentre altri tre partecipanti alla protesta erano feriti. La morte di una seconda persona, un giovane di 24 anni, è stata confermata dai suoi genitori all’uscita dell’ospedale.” [9]
Ovvero, gli onorevoli che hanno aperto la crisi non parteciperanno alla loro soluzione. Come non parteciperà il golpista Merino, dimessosi in giornata. “Sublime”, avrebbe chiosato “l’ispettore Callaghan”. Mi viene in mente Gramsci: “Ma l’umanità, come realtà e come idea, è un punto di partenza o un punto di arrivo?” (“Quaderni del carcere”, Quaderno XXX”, “Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo Stato moderno”, 1934).
Mi viene pure in mente la risposta, ovviamente indiretta, di Jorge Luis Borges: “Arriviamo così alla terribile domanda: L’universo, la nostra vita, appartengono al genere realista o al genere fantastico?” (in Miguel Blumenbach, “Jorge Luis Borges: La literatura fantástica”, conferenza del 7 aprile 1967)
Piccolo inquadramento di riferimento
Come detto in apertura, per dare senso alle vicende, la cronaca andrebbe sempre inquadrata. Ci sarà tempo e modo di farlo. Per ora, semplificando all’estremo, definirei la crisi in generale come una turbolenza o perturbazione importante del sistema sociale che, al di là della sua durata ed estensione geografica, può mettere a repentaglio la stessa esistenza dei meccanismi essenziali di riproduzione.
È ovvio che, così intesa una crisi, politica o di qualsiasi altro tipo, è sempre latente. Ma quelle in corso sono potenziate da una successione di cicli man mano sempre più degradati. Ovviamente, non è un concetto valido solo per il Perù o l’America Latina e si vincola strettamente alla decadenza della civiltà capitalistica nella quale ci troviamo immersi.
Nel Perù, come in tutta la regione latinoamericana, pur con gradi e accenti diversificati, è in atto una crisi prolungata, permanente, storica.
Nel caso specifico, deriva dal fatto che uno Stato non nazionale (composto da più gruppi etnici) continui a privatizzare, con i parametri di un’accumulazione originaria, tramite un processo di re-colonizzazione che assume la forma di costruzione di un paese estrattivista minerario, scontrandosi ancora una volta con i popoli originari che intende sottomettere occupando i loro territori e sottoponendoli a più moderne modalità di esproprio e di sfruttamento.
La crisi peruviana si caratterizza per l’instabilità, le difficoltà, i cambiamenti e le trasformazioni profonde indotte dalle riforme neoliberiste in corso da oltre 30 anni senza, tuttavia, arrivare ad un punto d’equilibrio in grado di determinare la sopravvivenza o scomparsa di alcune istituzioni o dello stesso Stato, ma disseminato di momenti ed avvenimenti che comportano periodi di mancate e intempestive corrispondenze, di congiunture difficili e complicate dove i conflitti sociali rinvigoriscono. Nel Perù ciò ha preso diverse forme: l’aymarazo, il moqueguazo, l’arequipeñazo, che hanno creato le condizioni per trasformazioni più radicali.
Essendo un processo, la crisi politica va esaminata in movimento. Movimento che, a volte, intensifica lo scontro di classe ma, stante le situazioni nazionali e macroregionale, caratterizzate da disorganizzazione e divisione, permette che il progetto neoliberista possa sempre ricomporsi ricreando l’equilibrio instabile che farà partire un altro ciclo.
Sono crisi nate con lo Stato repubblicano, che in America Latina non è stato né Stato liberale, né Stato nazionale, né Stato sociale, bensì un’entità politica di dominio e di comando, coercitiva, strutturata applicando all’interno dei paesi le modalità coloniali.
Nulla ha di casuale, quindi, che i regimi politici siano stati per lo più militari, oligarchici o neoliberisti, organizzati attraverso istituzioni, Costituzioni e governi che, concepiti sostanzialmente per il saccheggio, sono per lo stesso motivo strutturalmente corrotti.
La critica allo Stato impone analizzare congiuntamente la storia e l’economia politica reali, senza separare lo Stato dall’economia, perché solo così si possono osservare i loro rapporti. Ciò significa, qui più che altrove, che circoscrivere la lotta politica alla sola gara elettorale, esprimendosi solo in uno “spazio democratico”, significa essenzialmente agire in un contesto di dominazione dove si definiscono gli interessi condivisi delle classi dominanti, non gli interessi collettivi o il bene comune.
Il fatto è che, rispettando la divisione feticista tra Stato e mercato, la lotta di classe si riduce effettivamente alla crescita, all’investimento privato, alla razionalità mercantile, alla redditività imprenditoriale e al regime di concorrenza. E che da questa prospettiva non si vedono la disoccupazione, la precarietà, il supersfruttamento e la re-colonizzazione attuata tramite l’esproprio, l’estrattivismo e la redditività, come non si capiscono il potere della borghesia periferica e della sua capacità di corruzione della vita politica.
Ovvero, senza questo rapporto non si capiscono Vizcarra, il Congresso, lo scontro in atto. Che non sono, pur se lo sembrano, “roba da pazzi” e/o insane ambizioni non suffragate dai fatti.
Penso che in Perù la crisi in corso differisca da quelle precedenti per l’avvenuto divorzio tra il potere e la politica, che si traduce in assenza della capacità di azione necessaria per fare ciò che ogni crisi esige: scegliere un modo di procedere per applicare la terapia indicata come necessaria per la strada scelta.
“Si ha la sensazione che quell’insufficiente capacità di azione continuerà a paralizzare la ricerca di una soluzione percorribile fino a quando il potere e la politica (oggi divorziati) si risposino. Tuttavia, si ha pure l’impressione che, nelle attuali condizioni d’interdipendenza globale, quel matrimonio risulti difficilmente concepibile all’interno di un solo Stato, per quanto grande e ricco di risorse sia. Sembrerebbe piuttosto di trovarci davanti al titanico compito d’innalzare il livello della politica e dell’importanza delle sue decisioni a dimensioni completamente nuove per le quali non esistono precedenti.”
Anche se, certamente, Zygmunt Bauman e Carlo Bordoni non pensavano al Perù quando scrissero queste righe nel loro “Stato di crisi” (2015).
Rodrigo Andrea Rivas –16 Novembre 2020
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